Tesine di letteratura italiana b c.p. 2009 Manzoni: Storia della Colonna Infame Indice 1. Introduzione 2 1.2 Vicenda editoriale e fortuna 2 1.3 Struttura e contenuti 3 1.4 Tematiche e aspetti stilistici 5 2. La poetica manzoniana tra poesia e verità 8 3. Origine ed evoluzione 9 4. Confronto fra le due redazioni 11 4.1 Confronto generale 11 4.2 Confronto fra testi 13 5. Per un confronto con le Osservazioni sulla Tortura del Verri 18 6. La ricezione della Colonna Infame 28 6.1 Le peculiarità dell'opera: i motivi dell'insuccesso 28 6.2 I motivi del successo postumo 33 Conclusione 38 BIBLIOGRAFIA 40 1. Introduzione 1.2 Vicenda editoriale e fortuna La Storia della colonna infame venne pubblicata a dispense a seguito dell'edizione definitiva dei Promessi Sposi del 1842 a Milano, presso gli editori Guglielmini e Radaelli, dopo una profonda rielaborazione strutturale e stilistica. Inizialmente elaborata all'interno del Fermo e Lucia, non venne inclusa nei tre tomi della prima edizione del romanzo (pubblicata a Milano tra il 1825 e il 1827 presso l'editore Vincenzo Ferrario) per ragioni narrative e politiche (forse la facile identificazione con le pratiche repressive degli austriaci). Fauriel, in una lettera a Cousin del 26 giugno 1824, aveva scritto che la Storia della Colonna Infame era già stata terminata e separata dal Fermo e Lucia. Anche Giulia Beccaria, in una lettera al vescovo Tosi del 18 gennaio 1828, diceva che la Colonna era "terminata sì, ma sicuramente al suo solito, Alessandro non solo la ritoccherà, ma la rifarà". La Storia della Colonna Infame nacque quindi come parte del Fermo e Lucia, legata ai capitoli sulla peste; successivamente venne disgiunta dal romanzo e presentata come Appendice storica. La prima stesura venne terminata nel 1824, ma Manzoni, benchè avesse già iniziato la revisione del romanzo, decise di non includerla nella Ventisettana: l'autore motivò la sua scelta, dicendo che la Colonna Infame "potrà esser materia d'un nuovo lavoro". Si diffuse allora l'attesa tra il pubblico, che pensava ad una seconda ampia opera narrativa; intanto Manzoni era giunto all'edizione definitiva della Colonna. Solo nel 1839, in occasione dell'edizione illustrata dei Promessi Sposi, l'autore si ripropose la pubblicazione della Colonna Infame: dopo averla revisionata tra il '41 e il '42, in autunno la pubblicò in appendice alla nuova edizione dei Promessi Sposi. L'opera non era strettamente storiografica o specialistica, piuttosto si presentava come un pamphlet morale che poteva interessare un pubblico vasto come quello dei Promessi Sposi. Ma nel '43, in una lettera ad Adolphe de Circourt, Manzoni si lamentava del fatto che quella sua petite histoire non avesse riscosso molto successo; anche scrittori ed accademici considerarono la Colonna un'opera minore. Da questo pregiudizio derivò una sottovalutazione dell'opera, durato dal 1842 al 1942, con un'unica eccezione: l'edizione annotata di Michele Ziino (Napoli-Genova-Città di Castello, Francesco Perrella, 1928, all'insegna della Biblioteca Rara, testi e documenti di Letteratura d'Arte e di Storia a cura di Achille Pelizzari); un'edizione che comunque si diffuse in ambito strettamente accademico. In Italia solo il conte Camillo Laderchi, a Ferrara, il 15 gennaio 1843, stampò alcune pagine sulla Storia della Colonna Infame; due recensioni uscirono poi sulla Rivista Europea e sul Giornale dell'Istituto Lombardo. Nel 1852, Giuseppe Rovani rivalutò il testo, trasmettendo a Dossi, Lucini, Tessa e Gadda (probabilmente) una propensione per la Colonna Infame; anche Carducci, antimanzoniano, ha dimostrato di apprezzarla. Marcella Gorra in Manzoni del 1959 si lamentava del fatto che quel saggio fosse stato "ingiustamente trascurato dagli storici della critica"; infine, nel 1984, Giuseppe Pontiggia ristampò la Colonna come primo numero della collana Vecchi tipi diretta da Angelo Stella. 1.3 Struttura e contenuti La Storia risultava indivisa nella prima stesura. Il testo uscì poi nella redazione finale del 1842 divisa in sette capitoli preceduti da un'introduzione. Nel disegno iniziale del Fermo e Lucia doveva costituire il capitolo V del IV tomo: infatti in fondo al foglio 52 del capitolo IV Manzoni aveva scritto che " il lettore che annojato da questa nostra già lunga digressione accessoria conservasse ancora qualche curiosità di veder la fine della narrazione principale, salti il seguente capitolo"1. Maturata però quasi subito la decisione di estrapolare la vicenda degli untori, per dedicarle una trattazione a parte, Manzoni cancellò la dicitura in fondo alla pagina, spostando materialmente le pagine originali del manoscritto del Fermo e Lucia: esse andarono a costituire, con quelle aggiunte successivamente, un fascicolo di circa sessanta pagine, intitolato prima Appendice, poi Appendice Storica e infine Storia della colonna infame. L'opera prende il titolo dalla colonna in granito che venne eretta nel XVII secolo nel quartiere della Vetra di Milano, dove era stata abbattuta la casa di uno dei presunti colpevoli, il barbiere Giangiacomo Mora, come monito perenne in seguito alla condanna a morte di cinque innocenti cittadini incolpati di aver diffuso il contagio della peste attraverso unguenti spalmati sui muri di Milano. Il processo si collocava nell'ambito di un'opinione diffusa nel Seicento per l'ignoranza e la superstizione popolare, ulteriormente suffragata dall'autorità, che la peste fosse dovuta non alle condizioni sanitarie dello Stato attraversato dai lanzichenecchi, ma bensì all'attività malefica degli "untori", capro espiatorio di fronte a una tragedia razionalmente non dominabile. La stesura definitiva, che non prevede più una narrazione ininterrotta, forse dovuta al suo essere inizialmente un capitolo del romanzo, è scandita, come abbiamo già ricordato, in sette capitoli. Ciascuno di essi è incentrato su un aspetto particolare della vicenda o alla esposizione di tematiche circoscritte: I. il presunto reato e l'apertura dell'inchiesta; II. "osservazioni generali [...] sulla pratica di que' tempi, ne' giudizi criminali"; III. l'istruttoria vera e propria - resoconto di interrogatori e torture subite dal Piazza da tutti i punti di vista: dell'autorità responsabile, del difensore del Padilla, dei cronisti del tempo, del Verri, col contrappunto della personale interpretazione dell'autore; IV. ispezione in casa del Mora - interrogatorio di questi e confronto col Piazza - confessione del Mora; V. nuove confessioni di Piazza e Mora: si estende la rete delle unzioni "alla persona grande", il Padilla - difese e ritrattazioni dei due condannati - supplizio finale; VI. altri processi di imputati minori - processo al Padilla; VII. i giudizi dei contemporanei e dei posteri sino al Verri2. 1.4 Tematiche e aspetti stilistici La vicenda è ricostruita sulla base di un manoscritto che conteneva gli atti del processo, il quale viene delineato in parte sinteticamente, in parte attraverso la riproduzione diretta del testo. Alla narrazione si accompagna il continuo intervento ironico e partecipato del narratore, che provvede a richiamare l'attenzione sulle contraddizioni dei giudici. Inoltre è importante il confronto fra il trattamento subìto dai condannati, appartenenti al popolo, e quello riservato ad altri indagati, usciti liberi dal processo per la loro appartenenza alle classi alte della società. L'attenzione di Manzoni verso il problema degli untori non è casuale, ma si inserisce sempre all'interno della sua riflessione sul problema del male del mondo, e quindi sul ruolo della Provvidenza. L'indagare gli errori del passato è parte integrante della forma mentis illuministica, nell'ottica di rilevare le storture derivanti da superstizioni e false credenze. Ma ancora più pregnante e vero nucleo tematico dell'opera è la responsabilità individuale dei giudici, immediatamente ricordati nell'incipit dell'Introduzione, quasi i dedicatari in negativo dell'opera. "Ai giudici che, in Milano nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizion della casa d'uno di quegli sventurati, decretaron di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile"3. Manzoni si propone di indagare nella realtà storica il concetto di libertà morale dell'uomo nella storia, operando un affondo diverso e ideologicamente opposto a quello operato da Pietro Verri nelle Osservazioni sulla tortura (1776-77, edite postume nel 1804), in cui l'autore milanese, partendo dallo stesso processo, voleva dimostrare la perversità della tortura in sé, senza affrontare la spinosa questione delle singole responsabilità degli individui. Alle pagine impetuose del Verri, Manzoni contrappone pagine più meditate e notevolmente scorciate. In realtà il taglio della prima Storia era eminentemente narrativo, tendendo a una rielaborazione delle testimonianze documentarie, sceneggiate e manipolate dalla fantasia del narratore, che spesso non si risparmiava eccessi di colorazione romanzesca. Infatti la prima stesura, immediatamente successiva alla conclusione del Fermo, presentava caratteri strutturali e linguistici assimilabili a quelli del primo abbozzo del romanzo. Del tutto diversa invece fu la redazione del testo finale. A partire dal '28-29 la vicenda compositiva della Storia si intreccia con la riflessione che giungerà a maturazione teorica col saggio Del romanzo storico. Di una lettera di Ermes Visconti a Goethe nel '29 è la notizia che Manzoni avrebbe voluto fare uno studio sui generi misti di storia e invenzione, e ancora nel '32-33 veniamo a sapere che prevaleva l'insoddisfazione dell'autore per i suoi Promessi Sposi, intessuti di storico e ideale, di fatti veri e finti. Proprio Goethe si era espresso con riserva sull'eccesso di storicizzazione dei capitoli iniziali del terzo tomo, nei quali soffocava la narrazione principale della storia d'amore, e questa critica doveva essere servita al Manzoni come ulteriore stimolo ad approfondire la propria riflessione teorica4. Perciò si può ben capire perché nell'edizione definitiva l'impostazione narrativa muti per far posto a un'esposizione oggettiva e ordinata dei fatti, appoggiata il più possibile alle testimonianze storiche e ricca di spunti critici e di approfondimento. Il cambiamento di prospettiva è evidente fin dall'Introduzione, incentrata ora sulla definizione dei compiti dello storico, cui spetta una ricostruzione minuziosa e rigorosa che consenta al lettore di formarsi un'opinione sul ruolo dei singoli protagonisti, ricavandone una lezione più generale sui rapporti tra individuo e società, tra responsabilità personale e ineluttabilità storica, e mettendo in luce nelle singole vicende quelle costanti umane "che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti, e detestarle"5. Il rigore della ricerca storica non è disgiunto, anzi, è accompagnato e sostenuto da una ricchezza di soluzioni stilistiche atte a integrare e svolgere i diversi piani narrativi del discorso. L'andamento tipico dell'argomentare manzoniano è strettamente aderente al percorso logico e mentale dell'autore: il periodo procede attraverso riprese e sottili distinzioni logiche che permettono di svolgere tutti gli aspetti della questione. L'intervento dell'autore si esplica attraverso l'uso di esclamative, domande retoriche, apostrofi al lettore che manifestano da un lato la drammaticità della vicenda personale di ciascun personaggio, dall'altro la partecipazione del narratore fino all'immedesimazione. Per ricostruire la genesi degli interrogatori, Manzoni fa ricorso a un andamento sintattico mimetico del parlato, al quale si alterna continuamente la riflessione manzoniana, che provvede a costruire un tessuto narrativo più vario. L'elemento stilstico più importante è sicuramente il discorso indiretto libero, seppur usato raramente: impiegato con efficace tecnica nelle fasi più delicate, in particolare nelle parti congetturali che riguardano la psicologia degli accusati. Poiché del travaglio interiore dei personaggi non si hanno conferme dalle testimonianze storiche, la struttura sintattica e i tempi verbali adottati per il piano delle ipotesi meno verificabili (interrogative, esclamative, eventuali) differiscono dalla cronaca dei fatti stilisticamente tradotta dal ritorno ai tempi verbali storici. Manzoni perciò, nonostante la scarsa fortuna dell'operetta, sebbene il genere del pamphlet non fosse popolare, sia per temi, stile e lingua ha anticipato la narrativa successiva, e in particolar modo quella verista, naturalista e d'inchiesta6. 2. La poetica manzoniana tra poesia e verità C'è una letteratura che ha per iscopo un genere speciale di componimenti, detti d'immaginazione; e dà o piuttosto cerca le regole per farli, e la ragione del giudicarli. Questa letteratura, non che l'abbia posseduta mai, ma vo ogni giorno, parte dimenticando, parte discredendo quel poco che m'era paruto saperne. [...] Ce ne ha un'altra, che è l'arte di dire, cioè di pensare bene, di rinvenire col mezzo del linguaggio, ciò che è di più vero, di più efficace, di più aggradevole in ogni soggetto, che prenda a considerare o a trattare. [Lettera a Marco Coen, 2 giugno 1832] Uno dei problemi centrali della poetica manzoniana è quello del rapporto fra poesia e verità, fra vero e inventato. Il ruolo del poeta è diverso da quello dello storico perché quest'ultimo si limita a riprodurre i fatti "nel loro esterno; ci dà ciò che gli uomini hanno fatto. Ma quel che essi hanno pensato, i sentimenti che hanno accompagnato le loro decisioni e i loro progetti, i loro successi e i loro scacchi [...] tutto questo, o quasi, la storia lo passa sotto silenzio; e tutto questo è invece dominio della poesia" mentre "i fatti, perché più conformi alla verità, per così dire concreta, possiedono nel più alto grado quel carattere di verità poetica che si cerca nella tragedia... il bisogno della verità è l'unica cosa che possa farci attribuire importanza a tutto ciò che apprendiamo". Un rapporto, quello tra poesia e verità, che si concilia con la generale concezione poetica di Manzoni, sostenitore dell'idea che, per "attribuire importanza" alla creazione artistica, occorre conferirle la funzione di comunicare fondamentali messaggi umani, intellettuali, morali, ricavati dalla meditazione della verità storica, capaci di commuovere il lettore e indurlo alla riflessione. Tutti questi concetti sono ben presenti ed esemplificati nell'evoluzione del processo elaborativo della Storia della colonna infame, nel passaggio dalla prima redazione del 1824 (che definiamo Storia¹) a quella definitiva del 1842 (che definiamo Storia²), testo difficile da catalogare nei generi letterari, dalla natura multiforme, che non ha mai avuto troppo fortuna né fra i lettori né fra i critici. Destino ben diverso hanno avuto i Promessi sposi, il romanzo storico per eccellenza messo in discussione nel discorso Del romanzo storico, che dimostra l'assurdità del progetto teorico di un componimento misto. L'impossibilità dei componimenti misti è l'impossibilità di far stare insieme la storia e la favola, cioè il vero e il falso. L'unico modo di rappresentare lo stato dell'umanità in una data epoca è la storia, nel senso tecnico della parola, in quanto l'obiettivo del romanzo storico di fondere storia e invenzione è "intrinsecamente contraddittorio" perché conduce a falsificare la verità storica: occorre privilegiare "la verità netta e distinta" su ogni invenzione e sacrificare la soluzione del romanzo storico alla storia vera e propria. Per questi motivi la Storia della colonna infame diventa la negazione del romanzo. 3. Origine ed evoluzione La fase elaborativa iniziale della Colonna Infame può verosimilmente essere situata alla fine del capitolo IV del tomo IV in cui Manzoni, riferendosi ai processi agli untori, scrive: Passare questi giudizj sotto silenzio sarebbe ommettere una parte troppo essenziale della storia di quel tempo disastroso; il raccontarli ci condurrebbe o ci trarrebbe troppo fuori del nostro sentiero. Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero7. Ai processi milanesi contro i presunti untori durante la peste del 1630, Manzoni intendeva dedicare il capitolo V del tomo IV e ultimo del Fermo e Lucia. La prima stesura della Colonna infame nasce sui fogli di questo capitolo. Lo scrittore però si avvede subito, prima di portare a termine la minuta, che questa parentesi storica avrebbe troppo a lungo differito la conclusione del racconto. Perciò estrae dalla compagine dell'opera le carte sugli untori, per riservarle a una "appendice" che avrebbe dovuto corredare la stampa del romanzo. In cima al foglio numerato 53, cassata la dicitura capitolo V, Manzoni scrive Appendice, che cancella per sostituirvi in un secondo momento Appendice storica, e poi Storia della Colonna Infame che sarà il titolo definitivo. Dell'originario capitolo V lo scrittore riutilizza i fogli 53-57, 62-67, 65-70 inserendone di nuovi fino a comporre un manoscritto di 60 fogli. La prima stesura della Colonna infame, quindi, è finita nel '24, quando è già iniziata la revisione del romanzo che occuperà Manzoni per tutti e tre gli anni successivi. La "ventisettana" non la comprenderà. Alla fine del capitolo XXXII lo scrittore così se ne giustifica con i lettori: E quantunque uno scrittore lodato poco innanzi se ne sia occupato, tuttavia [...] ci è paruto che la storia potesse essere materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da passarsene così con poche parole; e il trattarla colla estensione che le si conviene ci porterebbe troppo in lungo. Oltre di che, dopo essersi fermato su quei casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere quei che rimangono della nostra narrazione. Riserbando però ad un altro scritto la narrazione di quelli, torneremo ora finalmente ai nostri personaggi, per non lasciarli più, fino all'ultimo. In questo annuncio che chiude il capitolo Manzoni sottolinea la novità, la diversità del tema e dell'impostazione. Dà, insomma, una definizione di quanto aveva già scritto. La storia delle unzioni e dei relativi processi è così destinata a divenire un altro scritto, totalmente separato. Lo scrittore inizia a progettare la stampa dal 1828, come emerge da testimonianze epistolari e non solo. Nel '39, presso l'editore Hoepli, si inizia a progettare un'edizione dei Promessi Sposi illustrata da Jean-Baptiste de Montgrand, lettore e traduttore francese di Manzoni. A questa pubblicazione si volle aggiungere "l'histoire du procès mentionné au châpitre 32 des Fiancés". In seguito Manzoni riprende in mano il manoscritto e lo revisiona tra il '41 e il '42, anno di pubblicazione dei fascicoli presso l'editore Redaelli. Il romanzo verrà illustrato da Gonin e in quegli anni gli scambi epistolari tra Manzoni e il pittore cominciano a riguardare le "vignette" della Colonna infame. Da queste testimonianze si può dedurre che alla fine dell'aprile '42 più della metà del testo è ancora da rivedere; l'8 agosto resta da scrivere più di un capitolo; il 16 settembre rimangono "la compaginazione del foglio di Parigi, la correzione di mezza la Colonna colla signora Emilia, e la correzione di tre o quattro prove di stampa". Soltanto alla fine dell'autunno '42 il testo verrà terminato, dopo un lungo e impegnativo lavoro di rielaborazione e revisione linguistica. 4. Confronto fra le due redazioni 4.1 Confronto generale Punto di partenza significativo, a nostro avviso, è il valore che la parola storia assume nelle due introduzioni delle rispettive redazioni. L'Introduzione di Storia¹, scritta probabilmente a stesura terminata, riporta la parola "storia" per ben cinque volte, ma solo in un caso è usata nella sua vera accezione, mentre negli altri casi è sostituibile con "racconto". L'Introduzione di Storia² presenta la parola "storia", questa volta, con il significato preciso di "esposizione ordinata e sistematica dei fatti umani". L'ambiguità che aleggia nel primo caso è l'indizio di un problema non ancora risolto (il tormentoso dilemma tra poesia e storia) che troverà una soluzione definitiva nella seconda redazione. Il netto cambiamento di prospettive è evidentissimo nella nuova Introduzione incentrata ora sulla definizione delle qualità e dei compiti dello storico. Fare della storia significa non accontentarsi di una osservazione superficiale che utilizzi dati adatti a sostenere la propria tesi (che è quanto aveva fatto Verri nell'Osservazioni sulla tortura), ma dedicarsi a una minuziosa ricostruzione che consenta al lettore di formarsi un'opinione sul ruolo dei protagonisti, ricavandone una lezione più generale sui rapporti tra individuo e società e mettendo in luce quelle costanti umane "che non si posson bandire, come falsi sistemi, né abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne' loro effetti, e detestarle". Presentiamo ora brevemente le caratteristiche fondamentali delle due redazioni: La prima redazione risente di un impianto narrativo, è un racconto lungo, senza soluzione di continuità né scansioni interne, costruito con un ritmo incalzante. L'autore non ha ancora una linea interpretativa rigorosa, tende a vedere i fatti come "uno di quegli uomini che non hanno pratica degli affari, che mettono le teorie dappertutto, e risolvono le cose col sentimento". La genesi della Colonna infame nella sua prima forma è strettamente legata al Fermo e Lucia e alle altre pagine dedicate al tema della peste, poiché è identico l'atteggiamento di Manzoni di fronte al materiale storico e identica è la procedura narrativa di presentarlo al lettore. La revisione della Colonna Infame è parallela all'evoluzione delle idee manzoniane sul romanzo storico, evoluzione che, successiva all'edizione "ventisettana" dei Promessi Sposi, approderà alla condanna del romanzo storico. Già nella revisione per la "ventisettana" dei capitoli storici dedicati a "fame, guerra, e peste" Manzoni mostra di aver cambiato prospettiva: i dati storici e i documenti si amalgamano con la narrazione. Il processo di critica del romanzo storico porta, inoltre, Manzoni a formulare giudizi severi sul romanzo storico considerato "produzione completamente illecita di frivola mezza conoscenza, intollerabile ibrido di Storia e Poesia, di Vero e di Falso" (Carl Witte, Lettere, I, 606). La seconda redazione rappresenta il punto di arrivo del "processo" del romanzo storico. Il testo definitivo rinuncia alla struttura narrativa e si trasforma in un saggio storico-giuridico. Il resoconto del processo è preceduto da un'Introduzione in cui l'autore si presenta in qualità di storico che si propone di far conoscere il "modo di essere" dell'umanità "in un dato tempo". La materia dell'opera è diversamente strutturata: non più esposizione lineare e continua, ma una netta scansione in sette capitoli, ognuno dedicato a un momento preciso dell' "affare". Nell'analizzare i fatti Manzoni segue gli estratti autentici del processo, intercalando il racconto breve con i fatti e le congetture. 4.2 Confronto fra testi Alcune sequenze mettono bene in rilievo il passaggio dalla abbandonata gioia del narrare, che il primo getto del romanzo documenta, alla trattazione storiografica dell'opera ultima, che ha per scopo un vero e proprio spoglio giuridico degli atti. Basta confrontare l'inizio della sua prima redazione, narrativamente tanto mosso, con quello della definitiva: Storia¹ Due femminelle, Caterina Rosa e Ottavia Boni, standosi sgraziatamente alla finestra di buon mattino, il giorno 21 di Giugno, nella contrada della Vetra de' Cittadini, videro un uomo coperto d'una cappa nera, con un cappellaccio su gli occhi, venire [...] camminar rasente il muro, sotto la gronda, (pioveva), scrivere su una carta che teneva nella mano sinistra, poi levata la destra dal foglio fregarla al muro, e ad un certo punto della via volgersi indietro, tornare verso il Corso dond'era venuto, rispondere su l'angolo al saluto d'uno che entrava nella via, e sparire. Storia² La mattina del 21 giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, il cappello sugli occhi, e una carta in mano, sopra la quale, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse. Le diede nell'occhio che, entrando nella strada, si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo voltato il cantone, e che a luogo a luogo tiraua con le mani dietro al muro. [...] E in quanto all'andar rasente il muro [...] era perché pioveva, come accennò quella Caterina medesima [...] L'apertura di Storia¹ mette in scena la testimonianza di due donne sottoposta all'interpretazione soggettiva dell'autore attraverso significativi elementi: "due femminelle", dove il diminutivo indica la bassa condizione sociale e intellettuale, "standosi sgraziatamente alla finestra". E' evidente il giudizio negativo di Manzoni. I dati storici, l'ora, il giorno e il luogo, sono presentati al lettore attraverso il filtro della narrazione. In Storia² il capitolo I si apre come il resoconto di un'inchiesta. La collocazione temporale del fatto è spostata in principio con l'indicazione esatta dell'ora, "verso le quattro e mezzo" e non più genericamente "di buon mattino"; è precisata la posizione dell'osservatrice, "a una finestra d'un cavalcavia che allora c'era sul principio di via della Vetra de' Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese", e l'identificazione delle testimoni: da "Due femminelle, Catterina Rosa e Ottavia Boni" a "una donnicciola chiamata Caterina Rosa" e "un'altra spettatrice, chiamata Ottavia Bono". Le cose raccontate sono, in sostanza, le stesse. In Storia¹ Manzoni inserisce con maggior gusto e colore i particolari come "cappellaccio" contro "cappello"; riporta con la consueta disposizione narrativa le testimonianze desunte dai verbali; bellissimo, a questo fine di racconto, il ("pioveva") che in Storia² salta fuori solo più tardi e solo con il suo valore diremmo giuridico. In Storia² Manzoni ha una coscienza più chiara del suo resoconto storico, che gli permette di separare l'unione ormai impraticabile tra storia e romanzo: E, cose che in un romanzo sarebbero tacciate d'inverisimili, ma che purtroppo l'accecamento della passione basta a spiegare [...] II 686 Vediamo un altro esempio significativo: Storia¹ "E, che ho visto colui fare certi atti che non mi piacciono", disse quella Catterina, e scese rapidamente nella via, a vedere che segni avesse lasciato l'uomo sospettato. Il romore si diffuse immediatamente, il vicinato accorse [...]. Storia² "Et io dissi a questo tale, segue a deporre la Caterina, è che ho visto colui a fare certi atti, che non mi piacciono niente. Subito poi si divulgò questo negozio [...]. Nella prima Colonna Infame è immaginata la conversazione di una delle donne con un passante di cui è riportato il discorso diretto chiuso dal discorso indiretto seguito dalle reazioni dei vicini messi in allarme. Nella seconda Colonna Infame Manzoni comincia a seguire subito gli atti del processo riconducendo i particolari nell'ambito di una spoglia giuridicità con intersezione della testimonianza diretta con il racconto dei fatti. In questo modo viene spezzata l'unità narrativa tipica del romanzo storico: il racconto diretto è evidenziato col corsivo e dagli incisi, "segue a deporre", mentre quello indiretto è caratterizzato dall'uso del passato remoto, "si divulgò", o del presente storico. I modi caratteristici dell'evoluzione del narrare manzoniano sono bene esemplificati dall'analisi psicologica del Piazza: Storia¹ Una infame e potente speranza gli fu fatta travedere; gli fu promessa l'impunità, s'egli avesse rivelato tutto il delitto, nominati i suoi complici. Rivelarlo non poteva, ma poteva inventarlo [...] Chi può indovinare i combattimenti di quell'animo a cui la memoria dei tormenti avrà fatto sentire a vicenda quanto sarebbe doloroso di subirli di nuovo, quanto orribile di farli subire altrui! Chi può indovinare l'angoscia dell'uomo che vittima odiata e incompatita d'un furore cieco, inesorabile, e arbitro nello stesso tempo del destino di chi gli fosse piaciuto, avrà ripassate nella sua mente le persone le persone per vedere chi doveva egli far vittima in sua vece! Quante volte avrà esitato, quante volte assolvendo uno, condannato l'altro, avrà mutata una scelta la quale poteva essere atroce; quante volte avrà risoluto di tutto patire! Vinse finalmente la carne [...]. [...] tre figlie aveva pure, una giovinetta, una nella prima pubertà, un'altra, che appena compiva il sesto anno. [...] obbligato d'inventare [...] doveva cavare i fatti non dalla sua memoria, dove non v'era nulla, ma dalla sua misera, rozza fantasia, combattuta anche, giova crederlo, dal rimordimento del delitto ch'egli stava commettendo. Storia² Il Piazza dunque chiese, ed ebbe l'impunità [...]. Non pare però punto probabile che il Piazza abbia chiesto lui l'impunità; [...] Ma chi può immaginarsi i combattimenti di quell'animo a cui la memoria così recente de' tormenti avarà fatto sentire a vicenda il terrore di soffrirli di nuovo, e l'orrore di farli soffrire! a cui la speranza di fuggire una morte spaventosa, non si presentava che accompagnata con lo spavento di cagionarla a un altro innocente! Giacché non poteva credere che fossero per abbandonare una preda, senza averne acquistata un'altra almeno, che volessero finire senza condanna. Cedette, abbracciò quella speranza [...]. [...] tre figlie; una di quattordici anni, una di dodici, una che aveva appena finito i sei. L'infelice inventava così a stento, e come per forza, e solo quando era eccitato [...]. In Storia¹ l'analisi psicologica dell'accusato, condotta da Manzoni, viene aperta con il discorso indiretto libero cercando di riprodurre il terribile dilemma del Piazza circa la possibile promessa d'impunità. Il discorso è interrotto da una serie di esclamative ritmate in anafora, intervento diretto del Piazza che dichiara l'impossibilità di esaminare l'animo del torturato, un espediente retorico per, al contrario, analizzarlo. I tempi verbali usati sono: l'imperfetto per il discorso rivissuto, il futuro dell'ipotesi e il passato remoto per il ritorno al punto di vista del narratore onnisciente. Questa prima versione è più drammatica sia per l'indugio sulle terribili alternative del condannato sia per la scelta lessicale: "vinse la carne" contro "cedette". Diversamente, in Storia², l'attacco dell'analisi psicologica del Piazza introduce due esclamative che ipotizzano la sua situazione interiore e una causale ("giacché") per il passaggio logico che lo induce a una decisione; il tempo verbale è l'imperfetto. A seguire, i fatti accertati sono esposti col passato remoto (da "cedette" in poi). E' evidente la semplicità e l'essenzialità della seconda versione rispetto alle quasi due pagine dedicate ai dibattimenti interiori del Piazza in Storia¹. Il secondo e terzo estratto della prima Colonna infame presentano la fantasia nei dettagli e la spiccata curiosità del narratore-romanziere, attenuate decisamente nella seconda Colonna infame. Riportiamo qui di seguito un caso interessante ancora legato all'immagine del Piazza in Storia² : Si fa venire il Piazza, e, alla presenza del Mora, gli si domanda, tutto di seguito, se è vero questo e questo e questo; tutto ciò che ha deposto. Risponde: Signor sì, che è vero. Il povero Mora grida: ah Dio misericordia! Non si trouarà mai questo. / Il commissario: io sono a questi termini, per sostentarui voi. / Il Mora: non si trouarà mai; non prouarete mai d'esser stato a casa mia. / Il commissario: non fossi mai stata in casa vostra, come vi son stato; che sono a questi termini per voi. / Il Mora: non si trouarà mai che siate stato a casa mia. L'estratto mette in scena il confronto tra il Piazza e il Mora, il barbiere accusato ingiustamente, che Manzoni riferisce con tecnica teatrale introducendo le battute con brevissime didascalie: la sequenza non è riportata con la consueta obiettività che caratterizza la redazione definitiva, ma è sceneggiato. Lo scrittore ricorre a questa tecnica probabilmente per rompere la monotonia delle domande e contestazioni dei giudici e dei momenti di routine dell'istruttoria. Analogamente la storia del Baruello è presentata in veste di racconto visionario, quasi fosse un romanzo noir. Il Baruello [...] cominciò una storia: che un tale (il quale era morto) l'aveva condotto dal barbiere; e questo, alzato un telo del parato della stanza, che nascondeva un uscio, l'aveva introdotto in una gran sala, dov'eran molte persone a sedere, tra le quali il Padilla [...] [il personaggio] si mise a tremare, a storcersi, a gridare: aiuto! a voltolarsi per terra, a volersi nascondere sotto una tavola. Fu esorcizzato, acquietato, stimolato a dire; e cominciò un'altra storia, nella quale fece entrare incantatori e circoli e parole magiche e il diavolo, ch'egli aveva riconosciuto per padrone. Manzoni in Storia² ha definitivamente eliminato l'invenzione ancorandosi ai dati storici e filtrandoli in mancanza di indizi certi, ma non può ignorare la sua esperienza di narratore. Concludendo risulta illuminante il giudizio dello scrittore Riccardo Bacchelli, lettore esperto di Manzoni e molto attento alla congiunzione storia-invenzione: "la Colonna Infame, nella sua spoglia e terribilmente sobria qualità artistica e documentaria di un fatto orrendo, è una forte opera d'arte. Come tale vuol essere letta [...] e come potente testimonianza, a suo modo poetica, a suo modo lirica [...] delle angosce manzoniane, nobilissime e umanissime". 5. Per un confronto con le Osservazioni sulla Tortura del Verri Manzoni, sin nell'Introduzione alla Storia della Colonna Infame, fa riferimento alle Osservazioni sulla Tortura di Pietro Verri (1777), ma, a differenza di quest'ultimo che voleva convincere dell'atrocità della pratica della tortura ("non cerco di sedurre né me stesso, né il lettore, cerco di camminare placidamente alla verità. ... Se la ragione farà conoscere che è cosa ingiusta, pericolosissima e crudele l'adoprar le torture, il premio che otterrò mi sarà ben più caro che la gloria di aver fatto un libro, avrò difesa la parte più debole e infelice degli uomini miei fratelli; se non mostrerò chiaramente la barbarie della tortura, quale la sento io, il mio libro sarà da collocarsi fra moltissimi superflui"8.), egli ha intenzione di dimostrare la responsabilità del giudizio umano e del libero arbitro in qualsiasi situazione. Se si affermasse che nel processo contro gli untori, svoltosi a Milano nel 1630, le atrocità commesse sugli innocenti siano da attribuire solo all' "ignoranza dei tempi" ed alla legislazione che legittimava l'uso della tortura, si considererebbero i giudici solo strumenti attraverso i quali applicare il Diritto, togliendo loro qualsiasi possibilità di agire sugli eventi, e si arriverebbe a "negar la Provvidenza, o accusarla"9. Manzoni, dunque riprende il trattato di Verri e lo legge sotto un'ottica nuova: "Ma quando, nel guardar più attentamente a que' fatti, ci si scopre un'ingiustizia che poteva esser veduta a quelli stessi che la commettevano ... è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacer, e non è scusa, ma una colpa".10 È da ricordare che il Verri scriveva mentre era scottante il dibattito circa l'abolizione della tortura: l'8 gennaio 1776 il Cancelliere di Stato di Maria Teresa trasmise la risoluzione dell'imperatrice intesa all'abolizione della tortura ed alla limitazione della pena di morte; sollecitava un pronunciamento in merito del Senato di Milano e del Consiglio di Giustizia di Mantova. Gli organi competenti di Mantova optarono per il mantenimento dello status quo, il Collegio Fiscale di Milano assunse un atteggiamento più disponibile, ma il Senato il 19 aprile si oppose alla richiesta, approvando la consulta di Gabriele Verri, padre di Pietro. L'anziano senatore riteneva la pratica indispensabile per mantenere la pubblica sicurezza, scoprire la verità, punire i colpevoli dei reati, fungere da deterrente ai disonesti; il figlio, nel trattato, argomentava invece che la tortura estorcesse confessioni ad innocenti ed addusse come prova le tristi fini di Piazza, Mora e di tutti gli innocenti giustiziati in quel processo. L'abolizione della tortura fu estesa a tutto l'impero solo con il decreto dell'11 settembre 1784 emanato dall'imperatore Giuseppe II. Sia Verri sia Manzoni compiono un'analisi sistematica della tradizione giuridica e storiografica, una ricostruzione realistica dei fatti e delle situazioni storiche, un'indagine psicologica sui personaggi grandi e piccoli della storia; ma Manzoni, anche alla luce della politica della Restaurazione (es. le sentenze contro i patrioti intellettuali come il Pellico ed aristocratici milanesi come il Confalonieri), universalizza il suo discorso, facendo del processo agli untori lo specimen di una eterna condizione umana.11 Nel Cap. I Manzoni riferisce la cronaca degli avvenimenti analogamente allo scritto del Verri, ma in alcuni punti addebita al raziocinio dei giudici la colpa di non aver saputo valutare correttamente i fatti: "E con queste parole" le accuse rivolte al Piazza "già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo; il sospetto e l'esasperazione, quando non siano frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni". Nel Cap. II Manzoni fa riferimento alla legislazione poco chiara circa l'impiego della tortura: lo Statuto di Milano era complicato da una quantità di grida anche fra loro contraddittorie, sottoposte ad immediate modifiche ad ogni cambiamento di governo ("l'autorità de' quali - i governatori - era anche legislativa, non valevano che per quanto durava il governo de' loro autori"). Dal Codice di Giustiniano (VI sec.) e dalle Nuove Costituzioni (1541) di Carlo V, si evinceva che la tortura era ammessa solo se la colpa era provata, non per provare la colpa; mentre i giudici del processo del 1630 invertirono la causa con la conseguenza ("l'effetto era diventato causa"). Il Verri (Cap. XII) cercava l'origine della legittimazione della pratica della tortura: ammessa durante le tirannie, motivo già valido di per sé per essere inammissibile; non consentita né dalla Bibbia, secondo la quale si deve giudicare l'imputato sulla base delle prove fornite dai testimoni; né dai Greci e Romani, se non sugli schiavi considerati non-persone; a Roma iniziò ad essere praticata durante l'impero, una volta perduta la democrazia. Nel Cap. XIII sosteneva che dal XIV secolo, si iniziò a studiare il Diritto e pullularono moltissimi pessimi criminalisti (ne citava ben ventisei ed affermava che ce ne fossero molti altri) che, mal interpretando le antiche legislazioni, legittimarono la tortura: "è certo che niente sta scritto nelle leggi nostre, né sulle persone che possono mettersi alla tortura, né sulle occasioni, nelle quali possano applicarvisi, né sul modo da tormentare, se col fuoco o col dislogamento e strazio delle membra, né sul tempo per cui duri lo spasimo, né sul numero di volte da ripeterlo; tutto questo strazio si fa sopra gli uomini coll'autorità del giudice, unicamente appoggiato alle dottrine dei criminalisti citati. Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci (...) uomini, dico, oscuri e privati con tristissimo raffinamento ridussero a sistema e gravemente pubblicarono la scienza di tormentare altri uomini, con quella tranquillità medesima colla quale si descrive l'arte di rimediare ai mali de corpo umano". Manzoni confuta tale asserzione: "il Verri perché, dall'essere quell'autorità riconosciuta" dei criminalisti "al tempo dell'iniquo giudizio," il processo del 1630 "induceva che ne fosse complice e in gran parte cagione; noi perché, osservando ciò ch'essa prescriveva o insegnava ne' vari particolari ce ne dovrem servire come d'un criterio, sussidiario ma importantissimo, per dimostrar più vivamente l'iniquità, dirò così, individuale del giudizio medesimo". A tal proposito cita svariati passi dei diversi giuristi menzionati dallo stesso Verri, i quali, pur ammettendo la tortura, la circoscrivevano ai soli casi in cui si fosse in presenza di prove schiaccianti contro l'imputato e condannavano aspramente i giudici che ordinavano tale pratica per loro sadico compiacimento. Infine riprende il giudizio verriano circa i criminalisti ("Uomini adunque oscuri, ignoranti e feroci") per ribadire la responsabilità individuale di chi è preposto all'applicazione della Legge: "E come mai era più feroce l'uomo che lavorava teorie, e le discuteva dinanzi al pubblico, dell'uomo ch'esercitava l'arbitrio in privato, sopra chi gli resisteva?" Verri nel Cap. IV affermava che Guglielmo Piazza, dopo essere stato imprigionato, negò di essere a conoscenza delle macchie di unto rinvenute sui muri presso Porta Ticinese, ciò fu ritenuto una "bugia", perciò "fu posto ai tormenti". Il medesimo fatto è riportato da Manzoni, all'inizio del Cap. III, ma, citando alcuni criminalisti, in particolare il Farinacci (1554-1618)12, dimostra che i giudici agirono contro la Legge, poiché la bugia doveva essere di una qualche rilevanza e provata. Manzoni, come il Verri, ritiene la tortura, oltre che inumana, assurda, poiché se si è certi della colpevolezza dell'imputato, è inutile averne la confessione, se si è incerti non si può rischiare di torturare un innocente; però ritiene che i giudici, in ogni circostanza, possano emettere sentenze giuste anche servendosi di leggi ingiuste, se si avvalgono di un saggio giudizio. Nel caso del processo in questione, invece essi "non cercavano una verità, ma volevano la confessione", poiché miravano ad estorcere la confessione a chi era ritenuto colpevole dall'opinione pubblica: "Tutto Milano sapeva (è il vocabolo usato in casi simili) che Guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l'avevano nelle mani, non l'avrebbero fatto confessar subito a lui!" Circa il rinnovo della tortura al Piazza il giorno seguente, Verri affermava laconicamente: "decretò il Senato che il presidente della sanità e il capitano di giustizia, assistendovi anche il fiscale Tornelli, dovessero nuovamente tormentare il Piazza acri tortura"; mentre Manzoni fa riferimento di nuovo a vari criminalisti per dimostrare che anche questa decisione fu presa contro il Diritto vigente, poiché la tortura si poteva rinnovare solo in presenza di nuove prove più evidenti delle precedenti. Dal momento che il commissario di sanità non confessava, nonostante la seconda tortura, i giudici gli promisero l'impunità a patto che ammettesse di essere l'untore e svelasse i suoi complici; ma, fa notare Manzoni, anche questo decreto fu applicato scorrettamente, poiché solo al sovrano era consentito concedere l'impunità. Si evidenzia anche la malafede dei giudici che promisero l'impunità al Piazza senza un atto formale autentico, perché si sarebbe resa evidente la manipolazione della grida. Lo stesso Manzoni sottolinea che né Ripamonti, né Verri erano a conoscenza della promessa di impunità fatta dai magistrati al Piazza, anzi ritenevano che l'avesse chiesta l'imputato, il quale pur di non essere nuovamente torturato, decise di deporre una falsa confessione. E' significativo perciò rilevare che il Verri riteneva che il trauma della tortura avesse indotto il commissario di sanità ad accusare se stesso ed il barbiere, iniziando così la lunga serie di denunce conclusasi poi con l'esecuzione di molti innocenti, invece Manzoni dimostra che tutto ciò fu causato dal miraggio dell'impunità. Nel Cap. IV Manzoni, come il Verri, si occupa della sorte del barbiere Gian Giacomo Mora la cui bottega venne perquisita ed egli arrestato, ma evidenzia che, ancora una volta, si contravvenne alla Legge, perché non era ammesso credere ad una confessione compiuta nella promessa di impunità "c'era in questo caso una circostanza che rendeva l'accusa radicalmente ed insanabilmente nulla: l'essere stata fatta in conseguenza d'una promessa d'impunità." Non contenti i giudici, vollero scovare altri complici, così accusarono il Piazza di non avere detto tutta la verità e perciò di non meritare l'impunità. Quindi egli alluse, senza nominarli, ai vicini di casa del Mora e fu torturato di nuovo applicando l'interpretazione di Giulio Claro (XIV sec.) al Diritto Romano ("Affinché il detto complice faccia fede, è necessario che sia confermato ne' tormenti, perché, essendo lui infame a cagion del suo proprio delitto, non può essere ammesso come testimonio, senza tortura"13); la Legge fu comunque infranta, poiché il commissario di sanità agì ancora sperando nella promessa di impunità; inoltre Manzoni ipotizza che la tortura a cui fu sottoposto, fu più lieve delle precedenti, non essendo registrati negli atti i lamenti del Piazza, come nelle due volte precedenti. Si sottolinea ancora la malafede dei giudici: non vollero rendersi conto che il commissario di sanità, mentre stava per essere ricondotto in cella, individuò dei complici (Baruello, Girolamo e Gaspare Migliavacca) solo per compiacerli ("Ma coloro che l'avevano interrogato, potevano non accorgersi che quell'aggiungere era una prova di più che non aveva che rispondere?") e ritennero inverosimile che il barbiere, secondo quanto deposto, avesse voluto procurare un rimedio contro la peste ad una persona che conosceva solo di vista, mentre pensarono credibile che le avesse affidato l'unguento pestilenziale. Inoltre Manzoni evidenzia che il capitano di giustizia nella lettera al governatore falsò la realtà, riportando il confronto diretto fra i due imputati, affermò: "Il Piazza animosamente gli ha sostenuto in faccia, esser vero ch'egli ricevè da lui un tale unguento, con le circostanze del luogo e del tempo"; mentre dagli atti risultava che il commissario di sanità si limitò ad annuire alle domande dei giudici, con un semplice Signor sì, che è vero. L'autore ritiene che il Piazza, dopo il confronto, individuò Baldassarre Litta e Stefano Buzzio come testimoni che avrebbero provato la sua amicizia con il barbiere, per suggerimento dei giudici i quali "volevano un pretesto per mettere Mora alla tortura"; poiché i criminalisti spiegavano che si poteva sottoporre alla tortura chi ha negato il legame di amicizia con l'imputato, solo se tale rapporto era confermato da almeno due testimoni. Questi non fornirono particolari informazioni, ma i giudici, contravvenendo alla Legge, sottoposero il barbiere alla tortura, perché gli attribuirono due bugie: aver negato l'amicizia con il Piazza ed aver strappato il foglio su cui era scritta la composizione del rimedio alla peste. Tutte le decisioni citate mostrano, a differenza dell'analisi verriana, che i giudici scientemente agirono contro la legislazione; inoltre, dopo la confessione del barbiere, estorta con la tortura, non vollero considerare la contraddittorietà dei moventi ("due cagioni, non solo diverse, ma opposte e incompatibili") addotti dai due imputati (il Piazza affermava che il Mora gli aveva ingiunto di imbrattare i muri in cambio di molto denaro; Mora invece affermava che il Piazza gli aveva chiesto di produrre l'unguento mortifero, perché, diffondendo la peste, entrambi avrebbero avuto grandi guadagni: l'uno come commissario di sanità, l'altro vendendo l'antidoto), nonostante la chiarezza del Farinacci: "la confessione non avesse valore, se non c'era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verosimile e grave, in proporzion del delitto medesimo"14 Nel Cap. V, come nell'Osservazione sulla tortura, si afferma che il Piazza coinvolse nel presunto losco affare una persona grande da cui Mora avrebbe ricevuto denari, ma si sottolinea che affermò ciò "o per farsi sempre più merito, o per guadagnar tempo", poiché i giudici lo minacciarono di non concedergli l'impunità, non avendo egli affermato di aver procurato al barbiere la bava degli appestati (ennesima invenzione che era stata estorta al Mora). Istruito il processo, i giudici scelsero, esercitando il loro raziocino, per il barbiere un avvocato d'ufficio debole ed incompetente, il quale rifiutò l'incarico: "davano per difensore uno che mancava delle qualità necessarie a un tal incarico, e n'aveva delle incompatibili! Con tanta leggerezza procedevano! Mettiam pure che non centrasse la malizia". L'accusa che il Piazza rivolse a Giovanni Gaetano Padilla, ufficiale spagnolo figlio del Castellano di Milano, di essere la persona grande, menzionata precedentemente, fu confermata dal Mora, ma non sotto tortura, bensì durante un confronto diretto, poiché, come osserva il difensore di Padilla, "senza questo, o altro simil mezzo, non sarebbero certamente riusciti a fargli buttar fuori quel personaggio. La tortura poteva renderlo bugiardo, ma non indovino". Lo stesso barbiere, subito dopo il confronto, si contraddisse: dalle testimonianze raccolte dall'avvocato di Padilla, si evinceva che il Mora "protestava di non raccordarsi di non haver forsi mai parlato con alcuno spagnuolo, et che se li havessero mostrato detto Sig. Don Giovanni, non l'haverebbe né anche conosciuto". Tale asserzione fu riferita da un prigioniero che conversava con un servitore dell'autorità di Sanità preposto a sorvegliare il barbiere, perciò Manzoni si chiede: "ma vogliam noi credere che i giudici, i quali avevan messo, o lasciato mettere per guardia al Mora un servitore di quell'auditor così attivo, così investigatore, non risapessero, se non tempo dopo, e accidentalmente da un testimonio, quelle parole così verisimili, dette senza speranza, un momento dopo quelle così strane che gli aveva estorte il dolore?" Come nell'analisi verriana poi si riporta il carosello di accuse e contro-accuse che i due imputati lanciarono contro altri innocenti, a loro volta torturati, sino all'atroce esecuzione dei presunti colpevoli ed all'erezione della colonna infame. Nel Cap. VI si affronta l'interrogatorio di Baruello, (accusato sia dal Piazza sia dal Mora i quali lo individuavano l'uno come il mandante dell'altro e viceversa), il Verri focalizzava l'attenzione sulla crudeltà dalle torture cui era sottoposto, riportandone i lamenti ed i gemiti, Manzoni invece sottolinea che l'imputato "sostenne bravamente i tormenti" ed accusò il Padilla solo quando gli fu promessa l'impunità; si ripeté dunque la prassi, contro la Legge, applicata per il Piazza. Inoltre i moventi addotti all'ufficiale spagnolo erano palesemente inverosimili e contraddetti dallo stesso imputato: prima affermò che Padilla avesse voluto contagiare i milanesi per vendicare gli insulti rivolti a Don Gonzalo de Cordova, poi per "farsi padrone di Milano". Inoltre, nonostante il figlio del Castellano potesse provare che in quei giorni non si trovava in città, contro di lui fu istruito il processo che si concluse solo nel maggio 1632, con la sentenza di innocenza. A questo punto, Manzoni mostra la sua indignazione nel constatare che, pur assolvendo colui che era stato individuato come il mandante supremo delle unzioni, i giudici non ammisero di avere condannato degli innocenti e la colonna infame rimase eretta sino al 1778: "Assolvendo insomma, come innocente, il capo, conobbero" i giudici "che avevan condannati come complici degl'innocenti? Tutt'altro, almeno per quel che comparve in pubblico; il monumento e la sentenza rimasero; i padri di famiglia che la sentenza aveva condannati, rimasero infami; i figli che aveva resi così atrocemente orfani, rimasero legalmente spogliati". In conclusione della narrazione dei fatti, dunque, si accusa ancora la mala fede dei magistrati, mentre il Verri (Cap. VIII) esclamava: "Tanti malori poté cagionare la superstiziosa ignoranza!" Nel Cap. VII si riprende quanto annunciato nell'introduzione: la polemica contro gli storici che ricostruirono i fatti senza ricercare la verità attraverso un'analisi critica, ma affidandosi alle notizie tramandate ("nel caso nostro, c'è parso cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l'uno dietro all'altro come le pecorelle di Dante, senza pensare di informarsi d'un fatto del quale credevano di dover parlare"). Il primo ad essere menzionato è il Ripamonti che, in diversi passi del De Peste15, "non solo non nega espressamente la reità di quest'infelici (...), ma pare più d'una volta che la voglia espressamente affermare"; Manzoni imputa tale condotta alla viltà dello storico di fronte all'opinione pubblica e ne cita un'espressione: "mettersi in guerra con tanti sarebbe un'impresa dura e inutile; perciò, senza negare, né affermare, né pender più da una parte che dall'altra, mi ristringerò a riferir l'opinioni altrui". Anche Verri (Cap. VII) ne aveva dato un simile ritratto ("Anzi lo stesso Ripamonti, che di proposito scrisse la storia di quella pestilenza, per timidità piuttosto che per persuasione sostenne l'opinione degli unti malefici") e ricordava che definiva coloro i quali morivano sotto tortura: strozzati dal demonio. Il Manzoni poi prosegue nella carrellata di storici che hanno tramato una visione distorta degli eventi (nominando anche il Muratori16 ed il Giannone17), per riconoscere al Verri il primato di aver dichiarato la reale innocenza dei condannati ("Venne finalmente Pietro Verri, il primo, dopo cento quarantasett'anni, che vide e disse chi erano stati i veri carnefici, il primo che richiese per quegli innocenti così barbaramente trucidati, e così stolidamente aborriti, una compassione, tanto più dovuta, quanto più tarda"), ma egli si limitò a riconoscere colpevoli delle atrocità commesse l'ignoranza dei tempi e la pratica della tortura, senza accusare chiaramente i magistrati, per un rispettoso timore verso il Senato milanese del quale il padre Gabriele allora era presidente ("A ogni modo, Pietro Verri non era uomo da sacrificare a un riguardo di quella sorte la manifestazione d'una verità resa importante dal credito in cui era l'errore, e più ancora dal fine a cui intendeva di farla scrivere; ma c'era una circostanza per cui il riguardo diveniva giusto. Il padre dell'illustre scrittore era presidente del senato. Così è avvenuto più volte, che anche le buone ragioni abbian dato aiuto alle cattive, e che, per la forza dell'une e dell'altre, una verità, dopo aver tardato un bel pezzo a nascere, abbia dovuto rimanere per un altro pezzo nascosta"). In conclusione è da notare la differenza di stile dei due autori: il Verri dava largo spazio alle descrizioni della pratica della tortura, riportava i lamenti dei condannati, si serviva di parecchie esclamazioni, cercava di coinvolgere emotivamente il lettore; il Manzoni invece adotta un'equilibrata eloquenza, per una rigorosa contestazione senza concitazione, così da argomentare e dimostrare pragmaticamente la propria tesi, lo scritto diventa una sorta di inchiesta che, attraverso una distaccata riflessione, descrive il fatto, evoca il Diritto, verifica le prove e confuta le obiezioni. 6. La ricezione della Colonna Infame "La più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni cattolico".18 È in questo modo che Sciascia definisce la Storia della colonna infame. E in questa definizione possiamo anche vedere la motivazione principale sia del suo insuccesso iniziale che del suo successo postumo. Perché la Storia della colonna infame non ebbe grande riscontro tra i suoi contemporanei? 6.1 Le peculiarità dell'opera: i motivi dell'insuccesso Per capirne i motivi, bisogna anzitutto inquadrare il contesto storico in cui nasce l'opera di Manzoni. Egli infatti scrive dopo i moti del 1821. Si apre così un periodo di forti repressioni, procedure giudiziarie, processi contro i carbonari; inoltre ci si rende conto che i metodi utilizzati sono gli stessi del 1789 e del consolato di Napoleone. Il sistema giudiziario non è più dunque figlio di una politica "illuminata", ma gli austriaci gestiscono i processi con procedure non legalmente corrette e attribuendo pene spesso non conformi al reato in questione. Questo è accaduto non per scarse conoscenze giuridiche, pregiudizi, superstizioni o inciviltà, ma per eliminare al più presto possibile il dissenso, come per i rivoluzionari del 1793 e Napoleone. L'istruttoria, le sentenze improvvise e indiscutibili non sono garanzie per gli imputati, anche se apparentemente sembrano corrette. E così era stato anche nel 1630. Manzoni dunque vive in un periodo storico, in cui si susseguono velocemente numerosi eventi che portano con sé notevoli cambiamenti. A partire dalla rivoluzione francese nel 1789 si ha il crollo degli antichi regimi, la presa al potere di Napoleone, la Restaurazione e poi appunto una serie di persecuzioni contro gli oppositori al nuovo sistema politico. Gli eventi, mostrandosi così rapidamente, non hanno lasciato modo agli uomini, dai più colti al popolo, di poterli cogliere, di prenderne atto. Così l'unica possibilità per poter controbattere i fatti è di agire altrettanto velocemente, in maniera avventata, attraverso decisioni realizzate in poco tempo, senza riflessioni profonde alla base. Il processo agli untori, trattato nella Colonna Infame, deriva proprio sull'onda di questo periodo storico "acceso". Quest'ultimo infatti viene messo a confronto con l'anarchia popolare, la dissoluzione dei poteri e dei diritti dei cittadini e l'aumento esponenziale di esecuzioni e torture, tratti presenti nel 1630. Il bisogno del "vero" quindi continua a farsi sentire nell'animo del Manzoni. La Colonna Infame infatti rappresenta il culmine della sua ricerca della verità attraverso la scrittura. Essa propone infatti un'ottica non romanzesca, ma storiografica. Osservare gli errori del passato non significa non interessarsi dei problemi del presente, anzi è esattamente il contrario. Si parla a proposito del concetto di posterità. Dal passato infatti si possono trarre lezioni importanti, coglierne gli errori, affinché si possano risolvere i problemi del presente e, di conseguenza, costruire un futuro migliore. Per questo viene di aiuto il caso del processo agli untori, perché, come già affermato in precedenza, mostra caratteri affini alla situazione storica dell'autore. Manzoni quindi si è posto la questione a proposito del genere letterario che possa degnamente trattare un periodo storico, come quello del 1630, costituito da eventi ancora immersi nel dubbio o divisi da interpretazioni diverse, senza perdere di vista l'obiettivo principe della sua opera, ossia cercare e mostrare la verità. Infatti la Colonna Infame è stata definita come un'opera di "crisi". Come sostiene Mino Martinazzoli "la Storia della colonna infame va situata in un passaggio di vera riflessione, e, dunque, in una crisi [...]. Occorre, semmai, una profondità di lettura capace di stringere, appena dietro la compostezza della prosa i fili assai tesi della passione manzoniana".19 Il risultato sarà alla fine un'opera di "alta unitarietà", secondo Maurizio Cucchi, "un'unitarietà non propriamente classificabile, non facilmente definibile: di ordine, se vogliamo, etico-storico-poetico, che non sollecita una netta distinzione interna tra verità storica e tensione poetica, tra l' "assertimento storico" e l' "assertimento poetico" [...]. Ma la Colonna Infame non voleva essere opera di genere misto e in essa l'autore voleva praticare il vero distinto dal verisimile [...]. Lo scrittore intanto abbandona il precedente stile più distesamente narrativo [...], l'invenzione veniva decisamente esclusa"20. Pertanto ciò che Manzoni consegna al pubblico una relazione, un racconto-inchiesta, un saggio storiografico, in cui "gli strappi narrativi, come brevissime sequenze o fotogrammi emozionanti che s'incidono nella memoria, acquistano una singolare, ulteriore potenza , nel "vero" del loro essere prelevati direttamente dagli estratti del processo"21. Secondo Giuseppe Rovani, Manzoni dona ai posteri un'opera "rinnovata e rivestita [...], una prosa nuova e non mai tentata in Italia, la prosa versatile che percorre tutti i toni e può riflettere l'indefinita varietà della vita [...], pur fece qualche scoperta anche in quelle materie che uscivano dalla sfera letteraria propriamente detta, mostrando quanto profondo acume avesse nelle disquisizioni di giurisprudenza [...], storia[...], filosofia morale e nelle materie teologiche".22 In lui riconosce "il genio e la conoscenza della storia". Infatti ciò che contraddistingue l'opera del Manzoni è proprio per il fatto che l'autore "gettò sguardo più acuto sull'ignoranza dei tempi e su quella barbarie della giurisprudenza; così dopo una esplorazione lunga e diligente, uscì con l'annuncio di una scoperta [...], che la giurisprudenza [...] non era barbara in tutto"23. Manzoni dunque, spaziando in diverse discipline, riesce a realizzare un'indagine ampia, completa, attenta, scrupolosa e meditata, senza lasciare nulla in sospeso, ma andando a scavare a fondo le ragioni ultime della questione. Ma, per avere una visione così acuta, a Manzoni non è bastato l'utilizzo esclusivo della ragione. Ciò che ha dato una spinta in più al suo lavoro è la sua Fede Cattolica. Attraverso un confronto con l'opera di P. Verri, Osservazioni sulla tortura, possiamo mettere in evidenza questa "colonna portante" dell'opera manzoniana. Nella premessa alla Colonna Infame si nota come, un altro dei motivi per cui è stato composto questo racconto-inchiesta, sia stato proprio il fatto che, rispetto allo scritto del Verri, "quantunque il soggetto" il processo agli untori del 1630 "fosse già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre[...], gli pareva che potesse essere trattato di nuovo con diverso intento"24. Infatti l'analisi del Verri converge a colpevolizzare la giurisprudenza, le norme così come si presentavamo, perché il fine del suo scritto tocca proprio quest'ambito. Ciò che preme maggiormente al Verri, dato il contesto storico turbolento che si trova ad affrontare pure lui, ma diverso dal Manzoni, riguarda la volontà di cambiare le leggi. Per questo la sua analisi si ferma solo "alla superficie", ossia all'apparenza delle norme, perché a lui interessa solo questo aspetto. Verri, da illuminista quale lui è, è mosso dalla passione verso l'uomo in quanto tale: dunque il suo obiettivo è esclusivamente l'abolizione della tortura nel Lombardo- Veneto, alla legge in sè, perché scalfisce la dignità umana. Manzoni invece va più a fondo. "Manzoni comincia là dove Verri finisce", sottolinea giustamente Mino Martinazzoli. Egli infatti, ricercatore e difensore del "vero" quale lui è, indaga le reali ragioni che hanno portato all'applicazione da parte dei giudici di tali leggi. Manzoni scopre che in realtà, al contrario di quanto sostiene Verri, la giurisprudenza vigente a quell'epoca non permetteva un ampio utilizzo della tortura, ma anzi cerca di limitarlo. Non sono ingiuste le leggi. Non basta dunque eliminare la norma. La questione che solleva Manzoni trova le sue radici in profondità, nella natura umana. Nella premessa all'opera egli sottolinea che "l'illustre scrittore suddetto" (Pietro Verri) non vede "mai, in nessun caso, l'ingiustizia personale e volontaria dei giudici". Ecco ciò che Manzoni ha voluto aggiungere all'opera del Verri: "Dio solo ha potuto vedere se que' magistrati, trovando i colpevoli di un delitto che non c'era, ma che si voleva, furon più complici o ministri d'una moltitudine che, accecata, non dall'ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l'abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l'adoprar doppio peso e doppia misura, sono cose che si possono riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertirci della volontà"25. Manzoni quindi punta l'accento sul libero arbitrio dell'uomo. Anche se quei giudici, di fronte all'incalzare degli eventi, furono portati ad agire e ad intervenire il più presto possibile, per eliminare i dissensi, con un'interpretazione erronea delle leggi, ciò non giustifica il loro operato a favore dell'ingiustizia. Infatti come sottolinea Carla Riccardi "alla ragione umana non sfugge, pur nei condizionamenti culturali, sociali, politici, il dovere morale di valutare senza pregiudizio il passato come il presente. Nell'osservare i meccanismi che determinano il male nel mondo, i fatti atroci dell'uomo contra uomo non ci dobbiamo fermare all'opinione pregiudicata, all'ignoranza, alla stortura degli intelletti, che ci fanno vedere la natura umana come inclinata inesorabilmente al male, ma considerare l'ignoranza morale che deriva dalla volontà di credere bene il male"26. Non è dunque l'arretratezza delle leggi, l'ignoranza dell'epoca o il contesto storico problematico, perché altrimenti, sempre secondo Carla Riccardi, "esso sarebbe giustificato come prodotto di un male metafisico, che è parte della natura umana e che potrebbe frenare solo da un sistema sociale di geometrica perfezione, risultato dalle illuminazioni illuministiche; ma se si dimostra che quell'ingiustizia poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, che questi trasgredivano le regole ammesse anche da loro, che compivano azioni opposte ai lumi che non solo c'erano alo loro tempo, ma che essi medesimi in circostanze simili, mostraron d'avere, si pone al centro la volontà deviata, la passione pervertita da un'ignoranza che l'uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa, e si sottintende l'estraneità di un'etica non fuori di noi, ma dentro di noi"27. Quindi, nel pensare che "cambiare le istituzioni, riformare la macchina della giustizia, eliminerebbe con assoluta sicurezza il male del mondo", ci si muove "senza tener conto che le buone, come le cattive istituzioni, non si applicano da sé". Per cui bisogna considerare la "variabile umana per cercare le cause del male fatto da uomini ad altri uomini, bisogna esplorare la zona opaca delle ragioni, delle motivazioni e dei fini per cui persone con vite biografiche, situate, determinate, scelgono e agiscono"28. Manzoni si muove dunque in quest'ottica: la semplice eliminazione dell'errore non porterà ad un cambiamento duraturo. Per un reale miglioramento futuro, è necessario capire le ragioni dell'errore, scavare a fondo, per estirpare le sue radici e non permettergli, quindi, di avere più linfa per continuare a vivere. Verri si ferma all'apparenza, Manzoni invece scopre il cuore della questione. Ed è proprio per queste peculiarità che la Colonna Infame non viene accettata dal pubblico degli anni Quaranta dell'Ottocento. Ma sono proprio questi motivi, scatenanti l'insuccesso iniziale, che invece saranno rivalutati e apprezzati successivamente. 6.2 I motivi del successo postumo Uno dei motivi per cui l'opera non fu apprezzata riguarda il gusto del pubblico, il quale, dopo l'uscita de I promessi sposi, si aspettava la pubblicazione sempre di un nuovo romanzo, mentre abbiamo visto come la Colonna Infame appartenga a tutt'altro genere. A questo proposito Rovani afferma che l'insuccesso deriva dal fatto che "fu l'essere creduto dal pubblico impaziente, per quasi vent'anni, che dovesse riuscire una degna sorella de I Promessi Sposi, che fosse per conseguenza un'opera d'arte fatta per l'immaginazione e per il cuore. Il pubblico, che s'era preparato a leggere un romanzo, si riputò dunque ingannato quando si trovò davanti una disquisizione legale, una difesa criminale"29. Inoltre, secondo Carla Riccardi, "non interviene direttamente nelle presente, ma universalizza, facendo del processo agli untori lo specimen di una eterna condizione umana"30, quando invece abbiamo constato come alla base della sua ricerca vi sia una riflessione ben più ampia e profonda, riguardo l'idea di errore e di passato, come guida per il futuro (il concetto di posterità). E a proposito di questo si inserisce proprio in un contesto culturale, come quello milanese, con una visione completamente opposta alla sua. Essa infatti è rivolta esclusivamente a mostrare fiducia verso il presente e il futuro. Infine sempre secondo Rovani "in quanto alla storia della Colonna Infame era ormai tanto nota da non valere la pena di parlarne ancora; che il Verri ne avea già cavato tutto il partito possibile per uno scopo filosofico e pratico", mentre invece abbiamo notato come ciò che ha portato Manzoni a scrivere quest'opera vi sia un ben altro "diverso intento". E sono invece proprio tutti questi aspetti che rendono l'opera preziosa come sottolinea Rovani: "eppure la Colonna Infame non è per nulla inferiore alle altre opere di Manzoni, anzi è preziosa perciò che rivelò un altro lato del suo ingegno e della sua dottrina, e la profonda sua acutezza nelle materie giuridiche; preziosissima poi perché dalla novità dell'intento ch'egli s'era proposto fu condotto a fare, quasi diremmo, una scoperta"31. Inoltre "adempì alle lacune che lasciò la storia". Cita il De Magri "il quale nel render conto della Colonna Infame [...] sembrò di poter cogliere dal fatto miserando del processo agli untori, conclusioni e ammaestramenti nuovi all' intutto e neppur sospettati"32. Lo stesso Giancarlo Vigorelli sottolinea proprio il contributo di Rovani nella rivalutazione della Colonna Infame, il primo dopo dieci anni di totale indifferenza, ed emerge con la sua opera La mente di Alessandro Manzoni del 1858. Egli, inoltre, avrebbe trasmesso al Dossi, a Lucini, al Tessa e a Gadda una propensione alla Colonna Infame. Più vicina nel tempo, sempre tra gli studiosi che hanno riscoperto e apprezzato l'opera, Vigorelli indica Marcella Gorra nel suo Manzoni (1958), la quale ha criticato come la Colonna Infame fosse stata ingiustamente messa da parte dagli storici della critica. Sempre secondo Vigorelli, di notevole importanza sono le figure di Sciascia e Moravia. Nell'introduzione alla Colonna Infame Sciascia debutta con un breve excursus storico a proposito dell'influenza della superstizione nella società. Egli sottolinea che la credenza di malattie, quali peste e colera, venissero sparse attraverso il contatto fisico è antica. Ci testimonia questo Livio il quale ci indica che, nel 428 sotto l'impero di Claudio Marcello e Caio Valerio, si attribuivano le pestilenze a veleni diffusi da matrone romane. Poi fino al XIII e XIV secolo non troviamo traccia di queste motivazioni, se non il volere di Dio o l'influsso degli astri e la propagazione delle malattie avveniva per scambi e viaggi. In seguito invece ritorna il primo tipo di credenza. Sciascia sostiene che ciò è accaduto "nel momento in cui veniva ad essere constatata e conseguentemente dot trinata la separazione della politica dalla morale. Quel che sappiamo quasi con certezza, qui ed ora è che nel secolo XIV nessuno aveva il sospetto di una peste manufatta e diffusa, [...] per decisione del potere (visibile o invisibile) o di una associazione cospirativa contro il potere o un gruppo delinquenziale che si propone nella calamità più facile depredazione; mentre nel secolo XVII un tale sospetto non solo viene formulato, ma arriva alla certezza medica e giuridica"33. E a Milano nel 1630 si può riscontrare una situazione simile: "poiché i cattivi governi, quando si trovano di fronte a situazioni che non sanno o non possono risolvere e nemmeno si provano ad affrontare hanno sempre avuto la risorsa del nemico esterno cui far carico ad ogni disagio e di ogni calamità, l'opinione dei milanesi fu mossa contro la Francia, allora nemica della Spagna dei cui domini lo Stato di Milano era parte. [...] Tuttavia la squallida personalità di costoro fece sì che l'opinione dei più ripiegasse sulla cospirazione non politica (interna o esterna) ma delinquenziale: e che il gruppetto degli untori altro non mirasse, seminando la morte, che al disordine, alle ruberie e ai saccheggi"34. Seppure vigeva questa mentalità, Sciascia fa notare, grazie agli esempi di Federico Borromeo e del Ripamonti, che nonostante tutto si poteva riuscire a vedere in essa la falsità di cui era portatrice. Infatti egli si sente più vicino alle posizioni del Manzoni che al Verri, perché riconosce che in questi processi agli untori l'unica parte principale è stata giocata essenzialmente dalle scelte di ogni giudice: "Pietro Verri guarda all'oscurità dei tempi e alle tremende istituzioni, Manzoni alle responsabilità individuali"35. Poi l'analisi di Sciascia si volge ad un confronto tra il processo agli untori e i campi di sterminio nazisti. In questo modo, oltre a mostrare la sua affinità di pensiero con Manzoni, perché come quest'ultimo nella Colonna Infame utilizza un fatto del passato per leggere e capire gli eventi del presente, per un cambiamento futuro, sostiene l'idea del libero arbitrio manzoniano come vera origine a cui bisogna guardare per capire a fondo la storia e i suoi protagonisti: "che quei giudici erano onesti e intelligenti quanto gli aguzzini di Rohmer erano buoni padri di famiglia, sentimentali, amanti della musica, rispettosi degli animali. Quei giudici furono burocrati del Male: e sapendo di farlo"36. A proposito invece di Federico Borromeo, "quanto a inganni ed artifici di principi e re stranieri per diffonderlo, ed a congiure per devastare Milano, egli nega che ve ne siano stati. Circa l'unto venefico per spargere la peste, le misture avvelenate, i venefici, egli lascia in dubbio se realmente ve ne furono, ovvero se li abbia sognati la vanità e i timori degli uomini [...]; ciò solo è sicuro ed evidente, che la peste afflisse Milano per voler celeste, affinché i cittadini si emendassero"37. Questo è ciò in cui crede e che fu riportato dal Ripamonti. In seguito quest'ultimo continua, mettendo in chiaro la sua posizione, simile a quella del cardinale. Anche lui sostiene che "furonvi molti i quali per iscusarsi della loro riprovevole negligenza, divulgavano che venne loro attaccata la peste cogli uguenti, mentre la contrassero coll'alito od il contatto"38. Comunque, sebbene permangono dubbi nei due personaggi, dovuti inevitabilmente al contesto storico-sociale di appartenenza, Sciascia constata che queste persone non cedettero alle unzioni. E si chiede quanti si fossero trovati nella loro stessa posizione. Non è dunque ancora una volta l'ignoranza dei tempi la causa dei mali dell'epoca. Ma con questi esempi mette bene in chiaro la novità assoluta dell'analisi manzoniana. Nell'ultima parte della sua introduzione Sciascia si dedica alla ricezione dell'opera. Egli sostiene che Manzoni non poteva comporre un romanzo come I promessi sposi, sebbene le aspettative del pubblico fossero in questa direzione: "il componimento misto di storia e d'invenzione gli sarà parsa inadeguata e precaria; e la materia dissonante al corso del romanzo, non regolabile ad esso, sfuggente, incerta, disperata"39. Lo stesso Manzoni riconosce in anticipo l'insuccesso che avrebbe riscosso la sua opera. Sciascia sottolinea questo aspetto: Manzoni "conosceva benissimo gli italiani" e già di fronte alla mole sarebbero rimasti delusi, per non parlare del contenuto: "non c'era mai stato niente di simile in Italia". Nonostante tutto alcuni suoi contemporanei apprezzarono l'operato, quali Adolphe de Circout, Lamartine e Augustin Thierry. E lo stesso Sciascia ne riconosce il valore, proprio per la sua visione ampia, che abbraccia più epoche, in quanto tratta "quel che è sembrato vero e importante alla coscienza", divenendo così un'opera della "più bruciante attualità". Anche Moravia riconosce questo motivazione nell'insuccesso iniziale dell'opera, che invece, ora, è motivo del suo successo: "proprio quei motivi che lo fecero a suo tempo condannare dallo storicismo ottocentesco, ne formarono ora il successo [...]. Il Manzoni non era uno storico, bensì un poeta e un narratore: ma i lettori di oggi gli sono egualmente grati di aver fatto la "sua" storia. Cioè di aver dato alla sua passione etica anche un'altra faccia oltre quella che già conoscevamo nei Promessi Sposi. Tra i critici ottocenteschi che giudicarono la Colonna Infame e il pubblico di oggi che le ha fatto buon viso, è il pubblico che ha ragione. Altresì se ne potrebbe dedurre che oggi non c'interessa tanto la verità, quanto chi, anche travisandola, la dice: e il modo soprattutto come la dice [...]"40. A questo proposito parla di autobiografia, ossia "un riferimento [...] costante ai fatti che cadono sotto il controllo diretto della sensibilità dello scrittore. [...] questo modo consapevole e determinato di riferire ogni cosa alla propria sensibilità è nuovo. [...] oggi la coscienza molto lucida, che soltanto la sensibilità possa giustificare un'attenzione, restringe singolarmente il numero delle cose cui l'attenzione stessa si rivolge"41. E l'opera manzoniana è "espressione indistruttibile di un'ispirazione personale e autobiografica. Così si torna all'autobiografia; ma non senza avere accertato quanto essa possa allargarsi ed arricchirsi. [...] per tale allargamento e arricchimento occorrono ben altri ausili che quelli della sola sensibilità e che, insomma, non si dà grande arte senza un corrispondente sistema di pensiero. Come appunto nel Manzoni"42. Conclusione In conclusione possiamo affermare, rifacendoci a Vigorelli, che essenzialmente "la più dolorosa e inquieta e acuta meditazione di Alessandro Manzoni cattolico"43 non fu recepita proprio per "il rifiuto di quel santo Vero che secolarmente ognuno e tutti, i nostri letterati arcadicamente svisarono sino ad eliminarlo, preferendogli[...] l'italica dissimulazione onesta"44. E, citando il Laderchi, mentre risponde a una lettera del Manzoni, il motivo risiede nel fatto che "forse non c'è mai stato tanto bisogno di scrittori che ai doni dell'ingegno uniscano, come Lei, l'amore della verità e la rettitudine delle intenzioni, [...] nell'epoca forse la più antifilosofica che ci sia mai stata, poiché [...] schiva la ricerca delle più alte cagioni"45. Ed è quindi proprio per questo che l'opera del Manzoni viene rivalutata, riconoscendo il valore alla luce della stessa personalità dell'autore, come sottolinea Rovani: "è notevole quel suo coraggio di uscir a combattere un'opinione appunto allora che è fatta universalissima e di mostrare che tutti hanno torto nel momento che tutti sono persuasi che non è più possibile non aver ragione [...]; al coraggio si confedera la santità del proposito, quando è provocato dalla convinzione coscienziosa"46. BIBLIOGRAFIA EDIZIONI UTILIZZATE DELLA STORIA DELLA COLONNA INFAME A. Manzoni, Storia della colonna infame, a cura di G. Barni, Milano, Rizzoli, 1961. -, Storia della colonna infame, con una nota di L. Sciascia, Palermo, Sellerio, 1981. -, Storia della colonna infame, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1984. -, Storia della colonna infame, a cura di M. Cucchi, Milano, Feltrinelli, 1992. -, Storia della colonna infame, con un saggio introduttivo di M. Martinazzoli, Lecco, Periplo, 1997. -, Storia della colonna infame, edizione critica e commento a cura di C. Riccardi, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002 Milano. STUDI SULLA STORIA DELLA COLONNA INFAME A.MAZZA, La prima "Colonna infame", in Studi sulle redazioni de "I Promessi Sposi", Milano, Edizioni Paoline, 1968. M. PUPPO, Poesia e verità. Interpretazioni manzoniane, Messina, D'Anna, 1979. G. ROVANI, La mente di Alessandro Manzoni, Milano, Libri Scheiwiller, 1984. A. MORAVIA, Opere 1927-1947, a cura di G. Pampaloni, Milano, Bompiani, 1986, p. 1028. R. LUPERINI, La scrittura e l'interpretazione. Dal Barocco al Romanticismo, Firenze, Palumbo, 2001 C. SEGRE, C. MARTIGNONI, L'età napoleonica e il romanticismo, Milano, Edizioni scolastiche B. Mondadori, 2001, p. 308 C. RICCARDI, La memoria letteraria. Il secondo Ottocento, Firenze, Le Monnier, 2003 PER IL CONFRONTO CON VERRI P. VERRI, Osservazioni sulla Tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano, Istituto di Propaganda libraria, 1993. Giuseppe Rovani: CENTO ANNI "Cento Anni è il titolo del nostro lavoro, e Cento Anni dovremo veder passare in fuga davanti a noi [...] vedremo le parrucche cadenti a riccioni stare ostinate contro i topè; vedremo il topè subire più modificazioni e concentrarsi nel codino a chiodo; vedremo i ciuffi a campanile, i capelli alla brutus e la cerchia del rinascimento...."47. Nel Preludio, scritto dall'autore stesso, Rovani riassume le vicende del suo più importante romanzo nell'evolversi delle acconciature più in voga in quegli anni dandoci esempio fin da subito di quell'ironia dissacrante che caratterizzerà tutto il romanzo. Cento Anni, pubblicato "a puntate" sulla Gazzetta Milanese dall'aprile 1857 all'agosto 1858, vede una prima edizione nel '59 (volumi I - II - III) e nel '64 (gli ultimi due, IV - V)48. La prima pubblicazione vera e propria compare solo nel 1868-1869 con il sottotitolo Romanzo ciclico di Giuseppe Rovani 49. Nuovamente riedito pochi anni dopo, nel 1974 presso la casa editrice Treves50, dalla fine dell'Ottocento e lungo tutto il Novecento godrà di numerose ristampe fino a 1975, presso Garzanti, a cura di Giulio Cattaneo (edizione da me presa in considerazione) e infine nel 2001 presso Rizzoli, a cura di Silvana Tamiozzo Goldmann, per la collana economica "BUR". Ad oggi sembra quasi scomparso dalle Antologie di letteratura, identificato solamente come maestro-antecedente della Scapigliatura secondo la definizione di Dossi, che gli attribuì un valore letterario pari a quello di Manzoni: "Ebbe sempre una grande propensione per l'osteria - la casa di chi non ne ha. L'osteria per lui si nobilitava in un'aula di università". Carlo Dossi fu anche autore anche dell'incompiuta biografia Rovaniana, scritta in onore del maestro. Cento Anni è un immenso romanzo enciclopedico che narra le vicende della Milano "bene" dal 1750, l'età dei Lumi, al 1850 circa, all'inizio del Risorgimento, attraversando i turbolenti periodi dei moti del '20-'21, '30-'31, '48, e incentrata sulla vicende di una famiglia della nobiltà e sulla figura del "Galantino", Andrea Suardi, un servitore che con le sue azioni innesca l'intreccio dell'intera vicenda. La storia, intesa come successione di eventi che in quegli anni provocano enormi cambiamenti geopolitici in Europa, diventa la tela su cui l'autore traccia con rapide e continue pennellate le vicende che si susseguono nel romanzo, senza entrare in maniera preponderante nella trama. Conserva un suo interesse "per la tensione tra le forme del romanzo storico, volte a un vivace cronachismo, e un impulso antistoricistico che prelude alla sensibilità decadentista della successiva Scapigliatura e che ispira l'esaltazione dell'età giovanile come stagione della felice libertà individuale"51. A questo dissidio corrisponde l'ibridismo linguistico del romanzo, in cui si mescolano forme colte e espressioni popolari. Tutto questo ne fece oggetto di ammirazione entusiastica da parte dei giovani letterati della generazione successiva a quella di Rovani che, nel clima anticonformista da cui nacque la Scapigliatura, fu considerato una guida. Rovani trae l'idea dei Cento Anni da una miscellanea raccolta da un frate di Sant'Ambrogio ad Nemus, ed è facilitato nel reperimento di informazioni e notizie anche cronachistica dai suoi lavori di giornalista e di impiegato presso la biblioteca di Brera a Milano. Azzardando un paragone con la pittura Cento anni potrebbe essere avvicinato all'Impressionismo per l'attenzione e la cura del dettaglio e dei particolari, anche se riprende dall'Espressionismo quella potenza centrifuga e disgregante che porta l'autore a "perdersi" in continue digressioni. Nuovamente il Preludio ci aiuta a trovare una definizione completa dell'idea di romanzo che lo ha guidato nella scrittura di Cento Anni: "Tutte le verità e della ragione e della filosofia e della storia, se hanno voluto uscire dall'angusta oligarchia dei savj, per travasarsi al popolo, hanno dovuto assumere la forma del romanzo che tutto assume: - la prosa la poesia, le infinite gradazioni dello stile; ei si innalza, in un bisogno, nelle più alte regioni dell'idea, s'abbassa tra le realtà del mondo pratico; è elegia, è lirica, è dramma, è epica, è commedia, è tragedia, è critica, è discussione, è satira". Il Preludio è una vera e propria apologia del romanzo: Rovani prende le distanze dal romanzo storico vero e proprio "Ma dopo che il più grande dei romanzieri venne a condannare il romanzo storico come una mostruosità della letteratura, come un ente ibrido, un assurdo [...] colui che oggi ha la malinconia di pubblicare questo lavoro, e che, nell'età dell'innocenza, stampò tre romanzi storici uno dopo l'altro"52( si riferisce a Lamberto Malatesta53, Valenzia Candiano54 e Manfredi Pallavicino55), ma anche quello "intimo", di costume, molto in voga in quel periodo. Il romanzo, probabilmente per motivi editoriali (ricordo che fu pubblicato prima in rivista, anche se non per intero) è diviso in venti libri più una conclusione, a loro volta ripartiti in "paragrafi" enunciati all'inizio di ogni libro. Il gusto stravagante e dispersivo porta Rovani talvolta a non rispettare propriamente l'argomento di ogni parte; inoltre per necessità commerciali spesso le vicende non sono concluse all'interno di un libro ma creano una certa suspense che invoglia il lettore a proseguire nel capitolo successivo. Il romanzo non ha una vera e propria struttura organica e unitaria ma è continuamente farcito di digressioni, commenti e descrizioni che intralciano lo svolgersi lineare della trama. Rovani, riprendendo una caratteristica propria del Manzoni, chiama in causa continuamente il lettore, ma senza cercare di accattivarselo. L'autore interviene più volte per commentare le vicende, inserire delle digressioni, "dare consigli" o "rimproverare" i suoi personaggi, ma senza mai trasmettere una sua morale, anzi lasciando a chi legge il compito di dare un giudizio: si stabilisce una sorta di dialogo-colloquio col lettore. Il pubblico di Rovani rispecchia un modo del tutto nuovo dell'autore di porsi rispetto ad esso ed è un pubblico continuamente chiamato in causa, che instaura con l'autore una continua querelle narratologica. Continua a criticare il proprio lavoro, in alcuni casi arriva persino a chiedere scusa per un periodo troppo lungo, discute sulle digressioni: un eccentrico narratore che talvolta perde il punto focale della storia per divagare su argomenti di ogni genere. Dopo questo preludio-introduzione-discussione sulle ragioni della scelta del genere letterario si entra immediatamente nelle vicende: "In una notte di febbraio 1750, a Milano, nella casa di un vecchio ricchissimo e avarissimo morto in quel giorno, un ex-lacchè soprannominato "il Galantino", entrato furtivamente, sottrae il testamento. Scoperto e inseguito, riesce a dileguarsi, mentre gli inseguitori mettono le mani addosso a un altro: il tenore Amorevoli, che si trova nel giardino di un'illustre dama dell'aristocrazia milanese". Questo duplice fatto di cronaca scandalosa milanese è il punto di partenza di una complicata rete di avventure in cui sono avvolti i primi protagonisti e poi i loro discendenti, sui quali in un modo o nell'altro i fatti di quella notte di febbraio hanno una ripercussione, per lo più triste, meno che sull'astuto e audace Galantino, che diventa ricco e potente banchiere". La narrazione prende il via dall'arresto del tenore Amorevoli, mentre si trova nel giardino della contessa Clelia V. intento a cercare di conquistarla, ingiustamente accusato di aver ucciso il Marchese F. per trafugare il suo testamento. Il romanzo, secondo un espediente ormai usuale, si presenta come il racconto del' ottantottenne Giocondo Bruni, burattinaio e unico filo conduttore, accanto al Galantino Suardi, di tutta la storia. Rovani è più interessato a narrare la Storia che non si trova sui libri, quella dei costumi, delle mode, della musica: diventa una sorta di "documento curioso di aspetti del costume della vita Ottocentesca"56. Oltre ai numerosi personaggi fittizi ma verosimili, si assiste ad una "sfilata" di tutti i più illustri rappresentanti della cultura e dell'arte, anche se non mancano personaggi propriamente storici, come ad esempio il Prina, di un secolo di storia milanese. In un capitolo si narra infatti l'eccidio del Conte Giuseppe Prina, ministro delle Finanze, napoleonico, ritenuto come il colpevole delle numerose tasse imposte dal governo francese, linciato dalla folla di Milano il 20 aprile 1814. Alla varietà di personaggi corrisponde una varietà di ambientazioni: le vicende si svolgono prevalentemente a Milano, ma ci sono interi capitoli su Venezia e su Roma, inoltre la storia si conclude a Vienna. Cento anni è un ibrido, senza dei precisi modelli narrativi, ma pastiche di influssi di ogni genere, dall'Illuminismo al nascente Verismo. Benedetto Croce giudica Rovani un manzoniano, "seguace della formola di quel romanzo che consisteva nella idea di una storia mescolata di invenzione o rappresentata mercè di personaggi o eventi immaginari". In realtà sono molte le differenze tra Rovani e Manzoni, considerato da Contini capofila nell'Ottocento del monolinguismo. Il nostro autore invece si inserisce in quel filone dell' Espressionismo plurilinguistico che Contini riconosce come filo conduttore sempre presente nella tradizione italiana, a partire dal Contrasto di Cielo d'Alcamo fino a Carlo Emilio Gadda. Contini nel saggio introduttivo alla Cognizione del dolore del '63, ripercorre a ritroso la storia della letteratura riconoscendo nei vari autori come Dante, fino o Folengo, i dialettali Maggi e Porta, per diventare quasi una caratteristica fondante con Dossi e gli Scapigliati. Inoltre nella già citata Rovaniana di Carlo Dossi, leggendaria biografia mai terminata, intessuta di exempla, si sottolinea l'odio del Rovani per la scuola manzoniana, personificata nel Cantù e si mette in evidenza il suo fastidio per gli ingredienti tradizionali del romanzo. "Il suo romanzo - ha scritto il Russo - non è più il semplice romanzo storico dei manzoniani, ma già si trasforma in una ricca galleria di quadri, dove il consueto intreccio monotono, con inserzione posticcia di digressioni storiche, viene abbandonato per una franca e coraggiosa ambizione dei panorami storici di più largo orizzonte". Anche lo stile in cui è scritto il libro rispetta il carattere eccentrico di Rovani: la sua pagina si presenta colorita di lessico molto vario che spazia dal termine tecnico, alla parola colta ed erudita, al termine "basso" senza che ci sia una ricerca di uniformità linguistica. Si tratta di un plurilinguismo espressionista ma non supportato da una precisa volontà dell'autore di riprodurre fedelmente il linguaggio dei suoi personaggi. Allo stesso modo non c'è alcun approfondimento psicologico nella descrizione delle numerose figure che si compaiono e scompaiono sulla pagina. Sono personaggi tutti di un pezzo che incarnano virtù e difetti caratterizzandosi totalmente in essi. Così ad esempio il Galantino sarà il borghese arrivista, sorta di self made man, che non esita a ricorrere a sotterfugi e averi e propri atti criminali per raggiungere l'affermazione personale. Per concludere Cento anni ha il suo interesse nel fatto di essere un'enorme affresco (1256 pagine) di un secolo di vita milanese, vista in tutti i suoi aspetti, non solamente storici ma anche culturali e di costume, mostrando un gusto enciclopedico dell'autore nel fornirci informazioni di ogni genere. LA LIBIA D'ORO Tutta la ricchezza delle suggestioni rovaniane tuttavia non si arresta con il romanzo Cento Anni. La Libia d'oro, il romanzo cominciato ad uscire nella "Gazzetta di Milano" il primo gennaio 1865, edito definitivamente in volume con il titolo La Libia s'oro. Scene storico-politiche di Giuseppe Rovani nel 186857, è considerato da Rovani stesso la continuazione di Cento Anni, anche per la ricomparsa di due dei suoi personaggi, Andrea Suardi, figlio del Galantino, e Mauro Bichinkommer della Compagnia della Teppa. Ce ne informa l'autore stesso nel Preludio: "Due personaggi, che abbiamo già conosciuto ne Cento anni, ricompariranno a sostenere una parte principalissima". Il romanzo conosce poche riedizioni, tra cui l'ultima risale al 1962, per la collana economica "BUR" di Rizzoli, Milano. L'autore ci informa che non si tratta di un romanzo "a tutto rigore", ma di un'opera che, "al pari dei Cento anni si propone di mettersi in compagnia della storia, non per svilupparla, ma per completarla". E ribadisce: "non è a tutto rigore un romanzo, secondo l'idea che i critici si son fatta di questo genere di composizione letteraria". Si tratta ancora di raccontare la "storia degli ignoti", mantenendo come sfondo la Storia dell'Europa, in un periodo caratterizzato dalle lotte del Risorgimento, spaziando anche nelle sfarzose Corti di Vienna e Pietroburgo. Dunque anche il periodo storico che fa da cornice all'opera ci permette di affermare che la Libia d'oro è da ritenersi la continuazione di Cento anni. Pertanto i Cento anni e la Libia d'oro sono ancora romanzi storici, ma in essi la Scapigliatura è già entrata sotto la specie di individualismo invadente e demolitore. Come già avvenuto in Cento anni il Prologo ci fornisce numerosi spunti per cercare di capire in che direzione ha intenzione di muoversi l'autore. Rovani con il suo solito stile ironico-sarcastico rimprovera "quegli altri critici, i quali ci accusarono di avere nei Cento anni fatto troppo largo posto alla schiera dei birbanti, e avrebbero escluso alquanti personaggi perché troppo perversi ed infernali, che questo peccato sarà accresciuto notabilmente nel nuovo libro".58 Nella Libia d'oro si narra la storia del fallimento di una cospirazione dovuta ad una loggia fra massonica chiamata appunto "Libia d'oro". Le scene sono ambientate in alcuni dei principali centri d'Europa, spostandosi dall'Italia, all'Austria fino alla Russia. Anche in questo romanzo Rovani mantiene un colloquio col lettore. Ad esempio apre il capitolo quarto dicendo: "Scommettiamo che alcuni lettori debbono aver detto : "Non è possibile che un imperatore di Russia.."". E più sotto: "ci rincresce di dover contraddire a questi egregi signori, ma quel che abbiamo raccontato è perfettamente in regola con le consuetudini della reggia di Pietroburgo". Ancora una volta si differenzia da Manzoni nel non cercare l'accondiscendenza del lettore ma anzi mostrandosi talvolta anche aggressivo o usando un tono di rimprovero. Di nuovo non c'è nessun intento moralistico: si lascia al lettore la possibilità di trarre le conclusioni di fronte agli eventi. Ci viene in aiuto una definizione di Piero Nardi: "Ve lo figurate, insomma, maestro di scena, autore, critico, buttafuori, macchinista. Ora in platea a far da interprete, ora sul palcoscenico, a ravvivare il dramma, ora fra le quinte, a ravvivare il sipario."59 LA GIOVINEZZA DI GIULIO CESARE La giovinezza di Giulio Cesare usci nel 1973, con il sottotitolo Scene romane di Giuseppe Rovani; fu riedito già nel 1874, ma ad oggi sono solamente un paio le ulteriori ristampe60. Ultimo romanzo di Rovani, che morirà l'anno successivo, l'opera è di più libera e sapiente struttura, avvicinandosi alle esperienze stilistiche degli Scapigliati. Nel Preludio, che si riconferma una chiave di lettura fondamentale per la comprensione dei romanzi, l'autore si lamenta "dell'odio onde sul nostro suolo italo - greco si volle dar di martello a tutto ciò che sapeva di greco e di romano. In architettura doveva essere tutto gotico, arabo, longobardo" per introdurre la sua riflessione su Giulio Cesare. Il suo intento dichiarato è quello di mostrare tutte le facce del "poliedrico" e geniale condottiero romano: "Dell'umano poliedro, Giulio Cesare mise in mostra tutte quante le facce; è forse il solo in tutta la storia che presenti questo carattere straordinario", e quindi "Ciò dunque che noi ci proponiamo è di vederne gli spaccati, di penetrar nelle case, di considerare il più grande dei romani nei più minuti particolari della sua vita, limitandoci alla gioventù perche la parte più drammatica perché ci dà modo di conoscere in tutta la varietà i costumi romani, e perché ci offre ovvie le occasioni di ritentare alquanti problemi storici, che lo scettrato scrittore61 sciolse alla sua maniera e troppo da sovrano..."62. Il romanzo si articola in ordine cronologico scandito da eventi storici, personaggi, non sempre celebri, intervallati come nei precedenti romanzi da digressioni di varia lunghezza su aspetti particolarmente a cuore al nostro autore. Di nuovo al centro della scena è la tanto esaltata "giovinezza", considerata dall'ormai anziano Rovani il periodo più felice e rimpianto dalla vita. La scrittura de La giovinezza di Giulio Cesare è ricercatissima, nell'intento dell'autore di avvicinarsi allo stile di uno storico latino, ricalcando la sintassi latina. Indice: 1. La questione filologica 1.1 Datazione 1.2 Stesura e copiatura 1.3 Una questione aperta 1.4 Un'opera in tre volumi 1.5 Fortuna 2. Caratteristiche di genere e della forma-romanzo nell'opera 2.1 Premessa 2.2 I modelli di riferimento 2.3 Modalità dell'organizzazione dei filoni 2.4 Conclusioni 3. Le fonti nieviane 3.1 La scelta delle fonti 3.2 Le fonti 3.3 Conclusiome 4. La storia nelle Confessioni di un italiano. Fatti e interpretazioni 4.1 La storia narrata 4.2 La "filosofia della storia" di Carlino 4.3 Nievo e Mazzini 5. Il narratore e il sistema dei personaggi 5.1 Carlino narratore 5.2 Carlino personaggio 5.3 Il sistema dei personaggi 6. Lingua e stile ne Le Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo 6.1 Introduzione 6.2 Lingua e stile in Nievo prima de Le Confessioni 6.3 Lingua e stile ne Le Confessioni Bibliografia 1. LA QUESTIONE FILOLOGICA 1.1 DATAZIONE Il 17 agosto del 1858, con queste ormai famose parole, Nievo annuncia all'amico Arnaldo Fusinato la conclusione delle Confessioni d'un italiano : "Ieri alla fine ho terminato il mio romanzo; son proprio contento di riposarmi. Fu una confessione assai lunga". Con lunga l'autore allude all'estensione del testo, che consta di più di 800 pagine, e non l'arco di tempo, sorprendentemente breve, impiegato per la stesura. Secondo la biografia di Nievo edita nel 1899 da Dino Mantovani63, pioniere degli studi nieviani e a cui si deve la discussa identificazione autore-personaggio, le Confessioni furono scritte in "otto mesi". Simone Casini, autore, un secolo dopo, di una nuova e attendibile edizione critica dell'opera64, scrive nella nota al testo che "non ci sono ragioni per mettere in discussione questa notizia, ma non ce ne sono neanche per accattarla acriticamente", sebbene sembrerebbe plausibile circoscrivere al 1857 l' anno di inizio del romanzo. Essendo nota la reticenza dell'autore a diffondere informazioni sulla propria attività, non stupisce che la prima testimonianza rimastaci dell'avvenuto inizio del nuovo romanzo risalga solo al 7 aprile 1858, data della lettera con cui Nievo aggiorna il cugino Carlo Gobio, evidentemente al corrente della stesura, del procedere non ottimale del lavoro : "Come ha da fare il mio romanzo a sbocciare tra questi sussurri?-Basta- io lo vo allattando segretamente prima di darlo alla luce...65". Le notizie sul romanzo, affidate molto spesso alla corrispondenza con i pochi amici a conoscenza dell'opera (tra cui, oltre a Gobio, Francesco Rosari, Erminia e Arnaldo Fusinato), riguarderanno, quindi, solo i mesi conclusivi del lavoro. 1.2 STESURA E RICOPIATURA A lungo si è dato credito all'ipotesi che le Confessioni fossero il sorprendente risultato di una scrittura di getto, priva di ripensamenti o correzioni, e che si trattasse sostanzialmente di un'opera non sottoposta a revisione, lasciata incompiuta a causa della sopravvenuta, precoce, morte dell'autore. Questa interpretazione, non priva di romantici riflessi, viene smentita nel 1952 dall'importante edizione di uno studioso tra i maggiori di Nievo, Sergio Romagnoli. Il critico nell'introduzione afferma "che il manoscritto autografo delle Confessioni non è la scrittura di getto del romanzo, ma ricopiatura, secondo un metodo che fu proprio del Nievo. Parla il buon senso: un romanzo tanto vasto, tanto pieno di personaggi [...] non può essere stato scritto di getto senza un pentimento...66". Il metodo di lavoro cui allude Romagnoli a conferma della sua tesi è quello che riguarda due precedenti romanzi di Nievo: Conte pecoraio e Angelo di bontà. Di entrambi si conservano gli autografi preparatori che mostrano come l'autore fosse solito approntare una prima stesura poi ampiamente rimaneggiata nel corso di un lungo lavoro di correzione. Nel settembre del 1856 Nievo aveva riscritto il Conte pecoraio in poco più di quattro mesi e aveva seguito uno stesso iter per Angelo di bontà, la cui ricopiatura-correzione è condotta, come scrive all'amico Fusinato, a ritmi serrati: "dieci ore al giorno per dodici giorni filati!", ritmi che lo privano della vita sociale trasformandolo nell'"automa dell'amanuense67". Sulla base di questi ritmi, Casini ipotizza che la ricopiatura delle Confessioni sia avvenuta nell'arco di tempo di un mese e mezzo (da fine giugno a metà agosto). Già Romagnoli sosteneva che la prima stesura fosse conclusa entro metà luglio e che da lì in avanti Nievo "si prospettava con grande precisione i ritmi dei restanti mesi estivi quasi fosse intento non a una prima stesura, o a una seconda, ma già alla trascrizione secondo un progresso prevedibile di giorno in giorno...68". Un'ulteriore conferma della fase di ricopiatura è fornita dall'analisi del manoscritto autografo, consegnato alla Biblioteca Comunale di Mantova il 4 novembre 1913 da Alessandro Nievo, nipote dell'autore. Scrive Romagnoli che si tratta senza dubbio di "una trascrizione tratta da una precedente stesura andata perduta e, per di più, data l'uniformità del chiarissimo ductus, si presenta come la trascrizione definitiva o pressochè definitiva69". Nell'autografo non mancano, infatti, correzioni o sviste facilmente ascrivibili al lavoro di copiatura. Si possono riportare, a titolo esemplificativo, casi in cui l'autore interviene per eliminare ripetizioni di termini causate da distrazione: alla carta I 17r del manoscritto si legge: "Ti reggi anche discretamente in piedi, e con qualche rattoppatura nella tua bella rattoppatura..." con il secondo sostantivo corretto in "vestaglia". Alla carta III 57v "A proposito di tua sorella; soggiunse Bruto; non avresti una sorella..." corretto in "lettera". Nel passaggio dalla prima stesura alla bella copia Nievo definisce anche la partitura definitiva dell'opera, introducendo la divisione dei capitoli 8 e 9 con una rubrica scritta verticalmente a margine dell'autografo. 1.3 UNA QUESTIONE APERTA Ancora due mesi dopo la conclusione della "bella copia", divisa in 15 fascicoletti successivamente rilegati in tre volumi, Nievo sente l'esigenza di perfezionare il lavoro e scrive all'amico Fausto Bonò : "il mio romanzo contemporaneo Le Confessioni d'un Italiano è già finito e pronto alla ripulitura; anzi ci attendo per quanto lo consente la severità del medico...70". Alcuni interventi d'autore posteriori sono, infatti, rintracciabili sulle carte dell'autografo, ma la revisione non dev'essere stata condotta a termine perché rimangono spazi bianchi per l'inserimento di parole e evidenti trascorsi di penna. Data la mancanza di un autografo autorizzato dall'autore per la stampa, non siamo in grado di stabilire se, e fino a che punto, Nievo avrebbe continuato o approfondito questo lavoro di lima, se l'avrebbe esteso anche ai fenomeni stilistici e grafici, normalizzando le frequenti oscillazioni tra una forma e l'altra. Tali questioni irrisolte hanno reso possibile l'applicazione di diversi criteri filologici ad opera dei vari curatori del romanzo, tanto che Romagnoli affermerà che "troppo e per troppo tempo si è voluto emendare71", si è voluto correggere le forme percepite come dialettali, antiquate o scorrette. L'osservazione fa riferimento alla princeps di E. Fuà Fusinato (1867), alle edizioni di D. Mantovani (1899), di F. Palazzi (1931) includendo anche la propria del 1952. Romagnoli, infatti, nell'edizione del 1990, ha proposto un intervento molto diverso sul testo considerando parte integrante del tessuto nieviano fenomeni prima corretti perché percepiti come dialettali (geminazione impropria e scempiamento consonantico). Il criterio su cui si basa questa scelta è quello da lui definito della "finzione totale", secondo cui Nievo avrebbe voluto "creare la voce di un vecchio [...]dare e lasciare a quella voce una sua particolare scrittura che gli si confacesse72". Nievo avrebbe dunque deliberatamente messo in bocca al suo illetterato narratore una lingua segnata da errori ortografici, ipercorrettismi, dialettalismi, scorretta interpunzione. Quest'interpretazione appare troppo forzata e Casini vi scorge un equivoco nato dal fatto di considerare l'autografo come fosse una stesura definitiva, lascito ultimo di Nievo. 1.4 UN'OPERA IN TRE VOLUMI Un' operazione non legittima messa in atto dalla prima edizione riguarda la partizione della materia che l'autografo vuole divisa in tre quaderni (rilegati in cartoncino telato nero) segnati I, II, III. L'edizione princeps fiorentina (1867) curata da Eugenio Cecchi suddivide il romanzo in due tomi, vincendo le resistenze dell'editore, Le Monnier, che suggeriva addirittura di ridurla a un solo volume. Quest' idea non sembra dettata solo dalla preoccupazione per un'eccessiva lunghezza del testo, ma si intravede la volontà dell'editore di ridurre quella seconda parte in cui la vicenda si cala nel vivo della storia e della politica contemporanea, favorendo la prima metà dalla dimensione privata ed idillica. Il desiderio di limitare la valenza politica dell'opera era già emerso nella scelta di sostituire in ottuagenario l'italiano del titolo, evidentemente aggettivo dalla troppo forte connotazione ideologico-politica. La tripartizione viene ripristinata nell'edizione della Treves (1899) a cura di Dino Mantovani. Il fatto che alla tripartizione del romanzo corrisponda una divisione in nuclei narrativi è tuttora questione aperta. A favore di questa ipotesi si schiera l'autorevole parere di P. V. Mengaldo, secondo cui la scansione dei quaderni corrisponde "a una scansione intrinseca della materia narrativa73" segnalata, peraltro, da rubriche particolarmente significative, di cesura. Il primo blocco narrativo comprenderebbe i capitoli I-VII, fino alla partenza del protagonista per Padova. Il secondo introdotto dalla rubrica Francia aveva decapitato un re e abolito la monarchia arriverebbe fino al capitolo XVII, includendo quindi tutto il periodo delle rivoluzioni italiane. La terza parte, aperta dall'espressione Il milleottocento, coprirebbe i restanti capitoli del romanzo. Se si accetta questa divisione narrativa dell'opera, si potrebbe avere, scrive Romagnoli, un richiamo alla tripartizione di opere celebri: i Mémoires di Goldoni, le Memorie inutili di Gozzi e, forse, i tre volumi della ventisettana. 1.5 FORTUNA Le Confessioni d'un Italiano a lungo non riscossero un adeguato riconoscimento e il valore dell'opera fu inteso solo con molto ritardo, a partire dal secondo dopo guerra. La critica ottocentesca accolse, infatti, molto freddamente il romanzo e si concentrò solo su pochi aspetti, in particolare quello della questione biografica sovrapponendo le vicende e la personalità di Carlino Altoviti al "poeta soldato". A conferma della scarsa valorizzazione e diffusione di Nievo presso i letterati del suo secolo, si può citare la memorialistica garibaldina, di poco successiva all'autore, dove il suo ricordo resta quasi unicamente affidato ai versi malinconici, ma non privi di eroiche suggestioni, di Giuseppe Cesare Abba: "E tu, nato all'amor delle Camene,/ Tu pur v'eri, o sdegnosa anima e cara/ Nievo infelice, e ti ridean sul volto/ Le speranze del vate e del guerriero. [...]Teco ne' gorghi del profondo mare/ Perì la musa a celebrar sortita/ L'eroica impresa...74". Ma è forse la lettera che Abba scrive a Mario Pratesi il 5 maggio 1873 a contenere il giudizio più pregnante : "Hai letto Nievo e l'hai trovato grande? Tira avanti a leggerlo, e vedrai l'altezza a cui sarebbe giunto se la morte non lo coglieva. Nievo sarebbe stato il più grande scrittore dell'Italia presente [...] A quanta altezza egli sarebbe salito nella storia...75". A testimonianza di quanto isolata fosse la voce di Abba, basterà ricordare che nel 1874 l'appena costituita Società Italiana contro le cattive letture, presieduta da Tommaseo, includeva l'opera di Nievo nella lista dei volumi sconsigliati alle famiglie e alle biblioteche popolari. Un primo punto di svolta per la conoscenza e la diffusione delle Confessioni è costituito dalla biografia do Dino Mantovani, (1899) cui si deve l'archetipo romantico dell' idealista poeta-soldato. L'edizione, non attendibile dal punto vi vista filologico, rimase a lungo, per oltre un trentennio, un intervento isolato. La ripresa di interesse per Nievo e per il suo capolavoro, è in parte coincidente con la celebrazione del centesimo anniversario (1931) della nascita dell'autore. A ben guardare, l'incipit della fortuna di Nievo trova una significativa testimonianza non in un letterato, bensì in uno scultore. Si tratta del trevigiano Arturo Martini, autore di una Tomba di Ippolito Nievo e di numerose opere sul tema della Pisana, personaggio da cui rimase stregato, tanto da scrivere in una lettera a Massimo Bontempelli del 1932: "...l'adoro e forse non ho amato che questa donna nella mia vita [...] a me pare la donna più interessante di tutti i tempi... ".76 Tra le iniziative per il centenario che lo vedono partecipe si distingue la creazione dell'associazione dei "Lettori di Ippolito Nievo", dotata di uno specifico statuto, fondata insieme a Maria Mazzolà e Giovanni Comisso. Quest'ultimo, scrittore veneto, inserisce Nievo in una precisa linea geografica e interpretativa (avvallata anche da B. Croce) che, riduttivamente, limita l'opera a una visione idillica, alle atmosfere nostalgico-fiabesche, extratemporali della fanciullezza. Nel dominante panorama di una limitata ricezione della lezione di Nievo nella sua complessità si distingue l'accorta lezione critica di Bacchelli che porta in primo piano l'aspetto storico-civile delle Confessioni, riconoscendo nell'opera un duplice parallelo processo che vede nella formazione della coscienza civica del protagonista, l'emblema di un corso storico che porterà alla costituzione dell'Unità. Gli anni del secondo dopoguerra registrano, come detto, un intensificarsi degli studi nieviani compiuti nel rigore filologico e volti nella direzione di un riesame del capolavoro nieviano reso possibile anche dalla disponibilità di scritti e documenti prima non noti e in grado di offrire un contesto meno lacunoso. Rinnovato è anche l'interesse che i maggiori autori del secolo dedicano alle Confessioni. Degne di nota per la loro felicità definitoria sono ad esempio le poche parole che Gadda, recensendo il romanzo del cugino Piero Gadda Conti (e denifendo gli apporti di Nievo), dedica alla prosa delle Confessioni: "Né il Nievo gli ha prestato la sua prosa robusta, elegantissima e classica, polposa e icastica, ma forse un po' del suo tono e del suo clima, e di quel brio così dolcemente umano e satirico a un tempo, e di quella così chiara aura. Come chi dicesse una luce d'Italia, malinconica e serena oltre il migrare delle tempeste77". Una nuova attenzione viene anche dedicata alla produzione politica e alle raccolte di novelle "campagnuole".Tuttavia, ad imporsi presso due autori di indiscusso rilievo del Novecento, Pasolini e Calvino, non è tanto il Nievo realista, quanto il fine narratore d'infanzia e di favolistici paesaggi. Nel romanzo scritto da Pasolini nel 1948, Amado mio, una trama di riferimenti e di suggestioni tratte dalle Confessioni accompagna il protagonista: "volgendo gli occhi intorno ritrovava i luoghi nieviani [...]Si ricordò di un certo passo delle Confessioni (...la sensuale licenza che toglie ai fanciulli di essere innocenti prima ancora che possano divenir colpevoli...Le battaglie dell'anima si svegliarono in me prima di quelle della carne [...]) , e si sentiva alla disperazione."78 Il culto per Nievo andrà intensificandosi e numerosi riferimenti al "Nievo friulano" saranno alla base della raccolta poetica dialettale della Meglio gioventù. Per quanto riguarda l'influnza che Nievo eserciterà su Calvino, ci si limita a riportare le sue stesse parole, rilascite nell'intervista di Maria Corti, in merito agli auctores che più hanno contribuito alla sua formazione lettararia: "Dirò subito: Le confessioni d'un ottuagenario di Ippolito Nievo, l'unico romanzo italiano dell'Ottocento dotato d'un fascino romanzesco paragonabile a quello che si ritrova con tanta abbondanza nelle letterature straniere. Un episodio del mio primo romanzo I sentieri dei nidi di ragno s'ispira all'incontro di Carlino e di Spaccafumo. Una vaga atmosfera del castello di Fratta è evocata nel Visconte dimezzato. E Il barone rampante ricalca il romanzo di Nievo nell'arco di una vita che copre lo stesso periodo storico tra Sette e Ottocento e gli stessi ambienti sociali; per di più, il personaggio femminile ha per modello la Pisana79". Per concludere il breve itinerario della fortuna nieviana, resta da citare Leonardo Sciascia, l'unico ad aver trasformato l'autore delle Confessioni in un personaggio narrativo che prende vita nelle pagine del racconto Il quarantotto (1958). Il ritratto "può anche essere letto come una sorta di postremo risarcimento della fortuna imperfetta di Nievo nel Novecento compiuto da Sciascia in nome e per conto degli scrittori della sua generazione: [...] Garibaldi disse ridendo- è un poeta [Nievo], un poeta che fa la guerra: e canterà le nostre vittorie e il cuore dei siciliani."80 2. CARATTERISTICHE DI GENERE E DELLA FORMA-ROMANZO NELL'OPERA 2.1 PREMESSA Le osservazioni contenute in questo intervento provengono in massima parte dal contributo offerto da Ugo M. Olivieri nei suoi libri "L'idillio interrotto" e soprattutto "Narrare avanti il reale". Esse sono state integrate con alcuni spunti offerti da Marcella Gorra nell'introduzione all'edizione Mondadori (Grandi Classici - Oscar Mondadori) de Le confessioni di un Italiano e verificate sul testo del romanzo. Esse si concentrano principalmente sul tentativo di definire il genere del romanzo in questione, verificando tutti gli apporti offerti dalle soluzioni formali della tradizione romanzesca europea sette-ottocentesca e sondandone le modalità di incardinazione nell'organismo testuale. Tutte le riflessioni vengono al contempo corredate di adeguati riscontri testuali. L'esposizione verrà quindi suddivisa in due momenti: dapprima infatti si tenterà un censimento di tutte le suggestioni letterarie operanti in maniera più o meno approfondita nelle pagine delle Confessioni. Successivamente si darà conto dei procedimenti narrativi che consentono all'autore di racchiuderle in un'unica opera, le cui caratteristiche verranno in questo senso messe in luce. 2.2 I MODELLI DI RIFERIMENTO Prima di procedere ad analizzarne la contestualizzazione e l'inserimento in un unico disegno armonico, è necessario enumerare i principali modelli letterari di riferimento che fanno capolino dalle pagine nieviane. I modelli analizzati da Olivieri sono i seguenti: Romanzo sentimentale: Tra le due principali storie d'amore che, speculari, percorrono tutta la trama del romanzo, i tratti più caratteristici del genere si ritrovano in quella che sboccia tra Clara, sorella maggiore della Pisana, e il dottor Lucilio di Fossalta, per i quali Olivieri utilizza la definizione di sublime "Ortisiano". E del romanzo foscoliano, infatti, le pagine dedicate all'amore dei due giovani paiono riprendere molti elementi. Come Jacopo, Lucilio è nella condizione di studente, anch'egli infiammato, nella sua volontà titanica dalla passione politica (e questa dimensione, come nell'Ortis, strettamente si connette allo svolgersi della storia d'amore). Clara, come Teresa, viene promessa in sposa non a uno, ma a ben due uomini, cosicché. l'amore tra lei e Lucilio si configura immediatamente come impossibile (si aggiunge in Nievo il motivo, che appare però alquanto secondario, della differente estrazione sociale dei due). La vicenda viene espressa mimando gli stilemi del romanzo risorgimentale, utilizzando una tonalità alta, al limite della declamazione oratoria. Altro elemento che accomuna ricorrente in entrambi i casi è l'ascendenza romantica dell'importanza accordata al paesaggio, specialmente nella scena della dichiarazione d'amore di Lucilio, inserita nel V capitolo sullo sfondo del bellissimo tramonto che li fece restare lunga pezza estatici a contemplarlo. Le differenze nel trattamento di queste premesse da parte dell'autore divengono ben presto evidenti e conducono infine ad un rientro anche stilistico della vicenda nell'orizzonte del romanzo. Clara infatti rifiuta ostinatamente entrambi i pretendenti, mentre Lucilio dà sbocco (contrariamente a Jacopo) alla propria volontà di azione politica in molteplici situazioni, con l'intento di mutare le regole del mondo attuale che gli impediscono di sposare Clara. Quando essa invece, scegliendo la via della monacazione, oppone un ostacolo insuperabile al matrimonio, Lucilio non si lascia travolgere dalla passione scegliendo la fine dell'eroe romantico, cioè il suicidio, ma, dopo una lucida analisi afferma la propria volontà di vivere per poter essere di maggior utilità: (cap XX) Perché vivere?[...]perché non era, né poteva essere certo che la morte mia sarebbe stata giusta ed utile a me od agli altri; mentre la vita invece poteva esserlo in qualche maniera... Il personaggio di Clara subisce infine un ridimensionamento che la trasforma, ribaltando tutti i crismi dell'eroina di cui era circonfusa nei primi capitoli, in una disseccata monaca laica, dedita a senile passione per il caffè. Nievo, quindi, pare prendersi gioco di questo modello, divertendosi a lasciarne disattesi gli sviluppi alti e ortisiani e puntando invece sul suo riassorbimento nell'orizzonte linguistico, stilistico e tematico "medio" che percorre il romanzo. Idillio: La componente idilliaca è presente in maniera massiccia nei primi capitoli del romanzo, quelli relativi all'infanzia di Carlino, in cui viene descritto il cosiddetto "mondo di Fratta". Quest'ambito risulta in qualche modo propedeutico al successivo sviluppo della vicenda in quanto momento privato dell'educazione e dell'amore per Carlino, che apre alla storia pubblica e sociale. In altre parole l'elaborazione di una nuova morale parte dal cerchio privato degli affetti e delle passioni per ricreare una società trasfigurata e trasformata dal processo etico individuale. In questo rapporto tra la dimensione privata dei personaggi e le evoluzioni del corpo sociale, si può ritrovare anche la soluzione nieviana al problema della praticabilità del romanzo storico per come viene impostato nella riflessione manzoniana, oggetto delle speculazioni del prossimo paragrafo. Il romanzo storico e l'antecedente dei Promessi Sposi: A trent'anni dalla ventisettana, la soluzione manzoniana non poteva sopravvivere che come magistero ideale e punto di riferimento obbligato per chi si cimentasse nel genere. Tuttavia, a causa delle conclusioni a cui Manzoni stesso giunge riguardo all'impraticabilità del romanzo storico, Nievo procede ad una revisione delle regole costruttive del genere. Le esigenze formalizzate nel romanzo sono lontane dal dibattito romantico su verità degli affetti e verosimiglianza storica; la legalità, l'oggettività della storia è filtrata dal rapporto tra la memoria extradiegetica del narratore e le vicende, gli errori e le illusioni dell'io narrato. Mentre in Manzoni il gioco dialettico tra narratore e narrazione dell'anonimo è utilizzato come controllo della verità di quest'ultima (cfr Raimondi, Il romanzo senza idillio, pag. 111) in un atteggiamento che porterà infine al rifiuto di questa forma, in Nievo proprio la fictio autobiografica del narratore ottuagenario, identica nelle conseguenze dei meccanismi narrativi ed extradiegetici a quella manzoniana dell'editore del manoscritto, consente di far coesistere la verità storica con la logica dei dettagli narrativi, poiché egli riserva per sé uno spazio autonomo di ricomposizione della trama imperfetta dei destini, imperfetto proprio perché il narratore ne percepisce lo scarto della storia rispetto alle proprie attese. Oltre ad affrontare in maniera nuova il problema della legittimità del romanzo storico, questo procedimento risulterà fondamentale anche per la strutturazione complessiva del romanzo, per la possibilità di far coesistere generi diversi. Questo discorso però sarà oggetto della seconda parte dell'intervento. In questo paragrafo resta ancora qualcosa da dire a proposito delle modalità di utilizzo delle fonti nei capitoli più propriamente "storici" del romanzo, come la caduta di Venezia e l'assedio di Genova. Non ci si sofferma quindi ad indicare quali fonti vengano utilizzate da Nievo (per quel che ci interessa è sufficiente citare la storia d'Italia del Botta), quanto su come esse vengano inserite all'interno dell'organismo testuale. Olivieri individua come strategia piuttosto ricorrente l'estremizzazione, attuata tramite la figura retorica dell'amplificatio, di alcuni luoghi comuni della storiografia risorgimentale, quali la personalizzazione delle cause storiche e l'alternanza tra la predicazione morale e il precipitare degli eventi per l'incapacità degli uomini, che spesso sfociano nel ridicolo o in un registro comico-drammaturgico. Questo procedimento non comporta lo scioglimento del nucleo storico nell'angolazione visuale dei personaggi, ma rimane una focalizzazione dall'alto, nella coscienza dell'ottuagenario. Il Bildungsroman: nel paragrafo precedente si è accennato al fatto che la fictio biografica del narratore ottuagenario consente uno spazio di risoluzione imperfetta dei destini, imperfetta poiché l'autore ne misura lo scarto rispetto alle proprie aspettative. Partendo da questa considerazione si può impostare un discorso riguardante la visione delle Confessioni come un romanzo di formazione. In effetti questo appare il modello più influente, insieme a quello del romanzo storico, sull'intera struttura dell'opera e si realizza proprio grazie all'espediente della finta autobiografia. Nella distanza che intercorre tra il tempo della narrazione e il tempo in cui è immerso il narratore, trovano spazio le considerazioni dell'ottuagenario sulle proprie esperienze, considerazioni che ovviamente risentono della sua conoscenza degli sviluppi successivi e delle situazioni e della propria personalità (in questo senso appare pertinente l'accenno alla risoluzione imperfetta dei destini). La penna del narratore si tinge così a volte di un certo humor parodico, a volte di un non so che di elegiaco, nel raccontare alcune vicende dal sapore quasi picaresco attraverso le quali si muove il giovane Carlino, protagonista ingenuo e sentimentale (si pensi, a titolo di esempio, al periodo trascorso militando nella legione Partenopea). La conseguenza più naturale è quindi il delinearsi di una parabola esistenziale, per nulla imbrigliata, però, dentro una trama artificiale, anzi sono le stesse considerazioni dell'autore a spezzare il ritmo tradizionalmente serrato della narrazione storica. Questa vocazione alla digressione, insita nella natura del Bildungsroman, è feconda di importanti conseguenze formali riguardanti la struttura complessiva delle Confessioni, che ora è possibile analizzare nella sua interezza e complessità. 2.3 MODALITÀ DELL'ORGANIZZAZIONE DEI FILONI Dopo aver dato conto dei principali modelli letterari operanti nel romanzo, viene ora il momento di delineare le modalità attraverso le quali essi si vengono a fondere in un'unica opera, la cui caratteristica fondamentale è quindi l'ibridazione. Dei processi messi in atto dall'autore sono stati enucleati come più importanti i seguenti: Dialettica tra romanzo storico e finta autobiografia: è già stato sottolineato il ruolo della finzione autobiografica nella risoluzione del dilemma manzoniano riguardante il rapporto tra micro e macrostoria, tra invenzione narrativa ed esigenze di veirtà storica. In questa sede, invece, si pone l'accento su un'altra fondamentale funzione di questa dialettica tra i due generi, questa volta di natura formale. La tendenza autobiografica alla digressione, al non ridursi all'interno di una trama artificiale e ben congegnata (all'interno della quale agisce certamente anche l'influenza dell'antiromanzo sterniano), riesce in qualche modo a creare degli interstizi nel meccanismo ben oliato del romanzo storico,a spezzarne la monolitica compattezza. La spia a livello formale di questo fenomeno si ritrova, come d'altronde già stato osservato, in una narrazione sostanzialmente "in due tempi" vale a dire quello della vicenda narrata e quello del narratore (che non si limita, manzonianamente, a controllarne la veridicità, ma la riesamina secondo un punto di vista derivante dall'esperienza accumulata, che solo alla fine del romanzo coinciderà con quello del protagonista). Tale procedimento narrativo, secondo il parere che Mengaldo esprime nel suo importante contributo "Appunti di lettura sulle Confessioni di Nievo", consente di convogliare materiali e posizioni diverse attribuendole ad un'istanza narrativa autonoma dall'autore. I percorsi e le traiettorie del romanzo storico sono attraversati dalle resistenze del tempo della coscienza e del privato e se la parabola finale ricompone in una sintesi i due segmenti, le tracce di vari generi si innervano profondamente nel rassicurante tronco del romanzo storico. Il rapporto tra l'Ottuagenario e Carlino: si è già detto molto sulla distanza temporale che separa (se così si può dire) i due protagonisti del romanzo e che si annulla solo alla fine della parabola narrativa. Altrettanto sono state rilevate le implicazioni di questa distanza per quanto riguarda lo sviluppo nell'opera del genere Bildungsroman. Rimane soltanto da segnalare una certa oscillazione della focalizzazione della narrazione, specchio dell'intreccio tra autobiografia e romanzo storico: accanto alla focalizzazione del narratore autobiografico riemerge in molti luoghi testuali la tendenza ad una focalizzazione interna sui personaggi tipica del narratore onnisciente, anche se spesso la focalizzazione autobiografica viene recuperata mediante l'informazione fornita al protagonista da altri personaggi (valga come esempio il "giornale" del figlio Giulio che occupa quasi tutto l'ultimo capitolo, che consente al narratore di raccontarne la vicenda nelle Americhe). Il rapporto tra l'Ottuagenario e il lettore: è stato doviziosamente analizzato il rapporto che intercorre tra il narratore-Ottuagenario e il personaggio-Carlino. Esso però, per il fatto di essere esibito e rivestito di grande importanza formale, implica l'evocazione di un lettore interno (figura definita da Genette come narratario) con il quale l'Ottuagenario instaura un secondo rapporto, di secondo grado (per così dire) rispetto a quello con Carlino. Se, infatti, grazie al rapporto con quest'ultimo, al narratore è consentito un processo di infrazione e di contestazione del classico sistema dei generi, è nel rapporto con il lettore che egli ne ricerca una conferma e una validazione. Viene così proposto una sorta di "patto" tra i due, una solidarizzazione che faccia in modo di vedere approvate da parte del narratario le istruzioni di lettura fornite dal narratore. 2.4 CONCLUSIONI Dopo aver analizzato, nella prima parte dell'intervento le presenze di vari generi all'interno del complesso organismo delle Confessioni di un Italiano, si è individuato come fattore fondamentale di ibridazione l'innesto della fictio autobiografica sul tronco del romanzo storico. La tendenza alla digressione e la distanza temporale tra narratore e narrazione, che essa implica, consentono l'inserimento "per tronconi" di generi quali l'idillio, il romanzo amoroso di ascendenza ortisiana e il bildungsroman. Il contenitore del romanzo storico tuttavia non viene portato alla dissoluzione, anzi riesce ad accogliere e riassumere in sé tutte queste istanze letterarie sia perché tutta la vicenda viene osservata con l'occhio del narratore, sia perché egli propone al lettore implicito un patto di solidarietà per garantire il funzionamento del proprio meccanismo testuale. 3. LE FONTI NIEVIANE 3.1 LA SCELTA DEGLI EVENTI Confessioni di un italiano non è un romanzo d'amore ambientato su uno sfondo "casualmente storico", come voleva il Palazzi.81 Si tratta infatti di un romanzo in cui la Storia e le vicende dei singoli personaggi sono strettamente necessarie le une alle altre. Nell'analisi del Nievo come storico e delle sue fonti, la prima cosa da verificare è la scelta degli avvenimenti descritti nell'arco del romanzo. La narrazione di Carlo Altoviti si apre il 18 ottobre 1775, data di nascita, e si chiude con l'ultima lettera del figlio Giulio, nel febbraio 1855. Uno sguardo agli eventi ci permette di notare come il primo fatto storico di grande portata sia la caduta di Venezia, all'arrivo delle truppe napoleoniche, vicenda che occupa larghissimo spazio nel corso della narrazione, mentre l'ultimo sia la rinascita della repubblica di Manin, nel 1848-'49, con la sua tragica caduta. Venezia apre e chiude il romanzo, con una grave sproporzione in favore della prima caduta, descritta nei suoi particolari e con la diretta partecipazione del narratore e dei suoi conoscenti. La storia della Repubblica veneta del 1848 è invece solo accennata, probabilmente in ragione della presenza della Censura di Stato, con cui Nievo aveva già avuto di che scontrarsi.82 Dallo sfascio del 1797 prendono avvio una serie e di spostamenti, che permettono al lettore di partecipare ai fatti della Repubblica partenopea del 1799, alle vicende dell'Italia sotto Napoleone (si pensi all'assedio di Genova e al ruolo di intendente bolognese), per concludere con la vicenda della difesa della Repubblica romana del 1848-'49. Questa cornice di fatti, tutti italiani, si apre a una breve parentesi londinese vissuta dai due protagonisti, Carlo e la Pisana, con aggiunta di Lucilio, e soprattutto a due squarci sulla storia mondiale: la lotta d'indipendenza greca e l'America dell'Ottocento. E' significativo e sintomatico che siano i figli o i nipoti di Carlino a partecipare a questi nuovi eventi: le nuove generazioni hanno operato uno sconfinamento dai confini nazionali e possono aprirsi spazi senza confini per l'azione. I fatti storici descritti con maggiore attenzione sono la doppia caduta di Venezia, i rivolgimenti napoleonici dal 1797 al 1820 e le effimere Repubbliche del 1848, ma è interessante notare anche quali eventi vengano tralasciati. Il silenzio colpisce in modo particolarmente evidente i moti nazionalisti del '21 e del '31 (quest'ultimo toccato parzialmente con la partecipazione del figlio, in Romagna), oltre che l'evento delle Cinque Giornate di Milano.83 La ragione principale del silenzio è da vedere ancora una volta nella Censura, che segna gli ultimi anni prima dell'unificazione. 3.2 LE FONTI Ippolito Nievo nasce nel 1831, dunque fu testimone diretto di pochissimi dei fatti storici descritti nel romanzo. Si pone dunque il problema delle fonti, ancora più articolato se prendiamo atto della scelta di un periodo storico recente, del vaglio della censura, del rapporto fra fonti scritte e orali. Fra le fonti orali, solo una è accertata in maniera sicura, vale a dire la testimonianza diretta del nonno Carlo Marin, patrizio veneto, che fu presente alla seduta del 12 maggio 1797. A questa fonte, Nievo si richiama in un'altra sua opera, Angelo di bontà, in cui si propone di continuare la storia che gli era stata riferita dal nonno "alla distesa" o per esserne stato testimone oculare, oppure perché ne aveva avuto notizia in gioventù da chi vi aveva partecipato.84 Per quanto concerne le altre fonti orali, la situazione è quanto mai intricata, specie se consideriamo il numero di persone e potenziali testimoni incontrati verosimilmente durante la partecipazione di Nievo, ancora giovanissimo, ai moti insurrezionali di Mantova nel 1848, e al conseguente vagabondaggio per alcune regioni italiane, specie la Toscana, la Lombardia, il Veneto e il Friuli. Per quanto riguarda le fonti scritte, la situazione è fortunatamente molto più chiara. Per quanto concerne gli eventi che precedettero e coincisero con la caduta della Serenissima, Nievo si rifà alla Storia della Repubblica Veneta di Giuseppe Cappelletti, pubblicata a Venezia, e il cui ultimo volume uscì nel 1855, dunque interamente consultabile dall'autore.85 Lo storico veneziano narra tutta la storia della Repubblica veneziana, e il tono che riguarda gli ultimi eventi è certo accorato, ma non paragonabile all'indignazione nieviana. Dall'opera di Cappelletti è ripresa sia l'intelaiatura dei fatti, sia i frequenti aneddoti. Tra i primi, fatto interessante anche per mostrare il rapporto con la fonte, c'è la traduzione di alcune frasi di un discorso della seduta del Maggior Consiglio del 9 maggio 1780, riportate dal Cappellacci in dialetto e mutuate dal Nievo in italiano, riguardo la precarietà di Venezia, che sopravvive "per accidente". Fra gli aneddoti, ricordiamo la frase pronunciata da Paolo, granduca ereditario di Russia, nel 1782 sul governo di Venezia: "Ecco l'effetto del saggio governo della Repubblica. Questo popolo è una famiglia". Il testo di Cappelletti è insomma accettato per quanto concerne la stesura dei fatti e degli aneddoti, ma non per quanto riguarda il tono, che si avvicina maggiormente alla seconda e principale fonte. Si tratta della Storia d'Italia dal 1789 al 1814, pubblicata nel 1824,86 a cui Nievo attinse largamente. Lo sdegno del Botta per la tracotanza e la tergiversazione dei governanti di Venezia è ripresa dal Nievo, che ne fa spesso anche occasione di sarcasmo, come nella vicenda del dispaccio sulla convocazione degli Stati Generali, nemmeno letto al Maggior Consiglio. Eppure, Nievo respinge, con un'attitudine critica verso la sua stessa fonte degna di uno storico, l'antifrancesismo, il nazionalismo eccessivo, il rifiuto della democrazia del Botta. Per meglio comprendere questo atteggiamento bivalente, di accettazione e rifiuto, è bene collazionare alcune parti dell'opera storica del Botta con alcune parti del romanzo; la prima citazione riguarda la deprecazione dell'immobilismo di Venezia. "Non con le umili protestazioni, non col privar Verona delle sue difese doveva Foscarini rispondere a Buonaparte, ma con suonar di campana a martello continuo, con un predicar alto di preti contro i conculcatori della sua innocente patria, con un dar armi in mano a uomini, a donne, a fanciulli, con un fracasso di cannoni incessabile dalla laguna all'Adige" da Storia d'Italia dal 1789 al 1814, Carlo Botta, Italia 1824, VII, p.112. "I turbolenti rumoreggiavano; i paurosi davano ansa al partito, e fu veduto nel Maggior Consiglio lo strano caso che la filosofia e la paura votassero contro la stabilità e il coraggio. Ma la vera filosofia avrebbe dovuto consigliare di cercar la salute nella propria dignità, non chiederla in ginocchione alla sapienza politica d'un condottiero" da Confessioni di un italiano, Nievo, Milano, Mondadori, 2006, p.498. Notiamo come comune sia la critica alla mancata reazione del governo della Repubblica, che avrebbe dovuto reagire a Bonaparte e non privarsi delle proprie difese e chiedere "in ginocchione" la libertà. Oltre che contenutisticamente, anche il registro è simile, nel segno dell'invettiva. C'è, in breve, una comunanza di toni e giudizi. Diversamente nel secondo passaggio che analizziamo, riguardante invece il concetto di libertà e Napoleone. "Oggimai si appropinquavano le calamità d'Italia. La tirannide sotto il nome di libertà, la rapina sotto il nome della generosità, un concitare i poveri, ed uno spogliare i ricchi, un gridare contro la nobiltà pubblicamente, ed un adularla privatamente, un far uso degli amatori della libertà" dall'opera citata, p.81. "Vi sono diritti che sol meritati possono chiamarsi tali; la libertà non si domanda ma si vuole: a chi la domanda vilmente è giusto rispondere con gli sputi: e Buonaparte aveva ragione e Venezia torto" dall'opera citata, p.499. Vediamo qui una differenza concettuale evidente: il giudizio di Botta su Napoleone e sul dominio francese è totalmente negativo, evocando la tirannide, la rapina, il populismo. Sembra di riconoscere, nelle sue posizioni, idee sostanzialmente reazionarie, del tutto opposte a quelle di Nievo, che focalizza nel passo il giudizio negativo su Venezia, giustificando, almeno da un punto di vista storicista, Napoleone, che resta in ogni caso il portatore degli ideali libertari del popolo francese. E' da notare come altrove, specie nell'episodio della violenza sulla vecchia contessa di Fratta, ci sia un giudizio molto negativo sul futuro imperatore e sulla portata libertaria dell'esercito francese, ma quando la questione è posta fra Venezia e Francia, e in particolare fra Napoleone e l'oligarchia repubblicana, Nievo prende posizione per il primo.87 Concluso così il discorso sul Botta, possiamo passare alle fonti minori, che ebbero tuttavia un'influenza sulle Confessioni. Dobbiamo citare in primo luogo la traduzione dal francese di un'opera di Pierre Daru, dal titolo Storia della Repubblica di Venezia, edito nella tipografia elvetica di Capolago fra il 1832 e il 1834. L'autore fu ministro e intendente generale sotto Napoleone, dopo la caduta dell'imperatore si ritirò a vita privata e scrisse questo testo, forse giustificativo del comportamento dell'armata francese verso la Repubblica, ma che certo divenne fondamentale, perché fu la prima opera complessiva sulla storia della Serenissima scritta dopo la sua caduta, ed ebbe un peso notevole nel delineare nel pubblico europeo un quadro della storia di Venezia. Anche la Storia documentata di Venezia di Samuele Romanin era certo conosciuta. L'opera, in dieci volumi, cominciò a uscire nel 1853, e Nievo non poté avvalersi degli ultimi volumi (l'ultimo fu pubblicato nel 1861), che erano peraltro quelli necessari alla trattazione. Sempre sulla storia della Repubblica vanno citati gli zibaldoni-pamphlet di Fabio Mutinelli, del 1854, dal titolo Memorie storiche degli ultimi cinquant'anni della Repubblica veneta. Il testo, a metà fra diaristica e pamphlet politico, è diviso in due sezioni di due libri ciascuno, una che indaga le cause della fine della Serenissima, l'altra gli effetti che seguirono. Il panorama sulle fonti scritte si deve concludere con un'opera cui il Nievo prestò fede nella scrittura della vicenda della Repubblica Partenopea, ovvero il Rapporto al cittadino Carnot, scritto da Francesco Lomonaco nel 1800, e probabilmente conosciuto nella raccolta postuma delle opere, stampata a Lugano dal 1831 al 1837. Lombardi, editore dell'opera nel 1861, dunque contemporaneo di Nievo, giudica, nella prefazione, l'opera come il completamento di quella di Cuoco, perché se questo dava un giudizio filosofico, Lomonaco versa di più sui fatti e sulle persone.88 3.3 CONCLUSIONI Sembra possibile tracciare a questo punto un bilancio del rapporto che Nievo intrattiene con le sue fonti. In primo luogo, pare dimostrato come la selezione degli eventi da rappresentare nel periodo storico scelto per ambientare il romanzo (1775-1855) sia stata fortemente condizionata dalla censura, che ha impedito l'inserzione di gran parte dei moti nazionalistici italiani nel tessuto dell'opera. In seconda istanza, Nievo si avvale di testi storici coevi e aggiornati, data la grande vicinanza temporale degli eventi trattati, di cui la maggior parte riguardano la storia patria della Repubblica Veneta. Venezia è infatti il fulcro del racconto storico, e Nievo si basa, nella descrizione degli avvenimenti, su testi con cui ha un rapporto dialettico e critico, e forse la grande abbondanza di letture sul tema è dovuta proprio al non avere accettato alcuna versione come unica. Questo atteggiamento, tipico dello storico, emerge prepotentemente da una collazione fra le fonti e il romanzo. Notiamo infine come Nievo non abbia limitato il suo ragionamento alla Serenissima, ma abbia scritto pagine che aprono a una dimensione molto maggiore, che coinvolge sia zone relativamente limitrofe come Napoli, sia la dimensione prima europea e poi mondiale della Grecia e delle Americhe. 4. LA STORIA NELLE CONFESSIONI DI UN ITALIANO. FATTI E INTERPRETAZIONI La presenza dell'elemento storico nelle Confessioni di un italiano, rivalutato da poco dalla critica,89 costituisce un elemento fondante del romanzo sia nell'intreccio (numerosi sono gli eventi storici a cui Carlino partecipa attivamente o di cui è spettatore) sia nella riflessione del narratore. La storia tuttavia coinvolge da vicino anche il motivo ispiratore del romanzo: il 1858, anno in cui Nievo inizia la stesura delle Confessioni, costituisce infatti l'ultima occasione per una riflessione politica e sociale prima della soluzione unitaria imposta dall'alto.90 Il romanzo diventa quindi un modo per affrontare il problema dell'Unità dal punto di vista della coscienza storica degli 'italiani' e per ipotizzare una risposta, attraverso il percorso di Carlino, alle domande della generazione di Nievo. Come bene intuisce Casini, le Confessioni non devono essere interrogate "come documento storico o come programma politico, ma come una straordinaria opportunità di interrogare ancora il momento originario della storia unitaria italiana".91 Lo stesso Nievo, in una lettera a Fausto Bonò Nievo del 14 ottobre 1858, parlava delle Confessioni come di un "romanzo contemporaneo";92 l'attualità diventa quindi protagonista, anche se attraverso lo schermo della storia degli ottanta anni precedenti. L'idea di fondo del romanzo ribadisce l'esistenza dell'"italiano" già prima dell'unità politica. Secondo Nievo, questo concetto di italianità avrebbe necessitato di un coordinamento dall'alto e di un adattamento delle istituzioni alla nazione. Tuttavia, come vedremo, tale processo incontrerà molte difficoltà, tra cui soprattutto il coinvolgimento concreto del popolo, per natura conservatore, nei processi politici e sociali, e l'anteposizione di questioni private ai problemi politici e sociali. 4.1 LA STORIA NARRATA Gli avvenimenti storici considerati sono quelli relativi alla vita di Carlino, il quale ripercorre i suoi ottant'anni deviando il ricordo fra eventi privati e eventi storici. La rubrica del cap. I ci informa che la narrazione ha inizio "verso il 1780", al tempo in cui Carlino, nato nel 1775, trascorre la sua infanzia al castello di Fratta con la Pisana e gli altri abitanti del castello. Gli ultimi anni della narrazione, che arriva al 1855, coincidono invece con gli anni vissuti dalla generazione di Nievo. Il racconto dei fatti più recenti non è però affidato a Carlino, ma a una seconda voce narrante: a trasmetterci la testimonianza di questi anni è infatti il diario del figlio Giulio, che ripercorre la sua fuga da Venezia, le rivolte di Roma del 1849, l'incontro con Garibaldi e l'esperienza in America latina. Nievo probabilmente introduce questo espediente per allontanare gli avvenimenti vissuti in prima persona dalla voce narrante, ribadendo il distacco fra autore e narratore. La spinta fondamentale che porta Nievo a riflettere sulla storia dei primi moti e della nascita della coscienza democratica in Italia è data dalla riflessione su avvenimenti recenti della storia di liberazione nazionale, in particolare dal fallimento di Pisacane nel 1857, la crisi del Partito d'Azione e il conflitto Mazzini/Cavour. La storia recente diventa quindi una base per interpretare le urgenti questioni del presente, ripercorrendo la nascita del movimento unitario e leggendolo, come suggerisce Casini, sulla base del concetto di volontarismo, che toccava da vicino Nievo, arruolato volontario nell'esercito garibaldino. In questo senso, una delle chiavi di lettura del romanzo, e quindi della storia risorgimentale, può essere appunto quella della limitatezza del volontarismo. Solo una minoranza di chi combatte è volontario, e solo quella minoranza è 'nazionale' e combatte realmente, come Nievo e come Carlino, per tutto il popolo.93 Il tempo di stesura è quindi importante nell'ottica del "decennio di preparazione" che Nievo stava vivendo. Gli eventi storici degli ultimi ottant'anni della storia d'Italia nelle Confessioni non sono esposti e illustrati attraverso l'esibizione di documenti che ne attestino l'attendibilità; le stesse fonti infatti sono a volte contraddette, introducendo episodi non realmente accaduti.94 La Storia si intreccia con la storia individuale dei protagonisti, in particolare di Carlino, ed è proprio attraverso l'esperienza personale (che ha la funzione di autenticare i fatti narrati), che vengono introdotti, spiegati e giudicati i fatti storici. Le Confessioni costituiscono quindi una meditazione sulla recente storia italiana che si sviluppa non attraverso una speculazione teorica, ma attraverso l'esperienza di un personaggio che vive concretamente quel periodo storico. Proprio per questo il giudizio sulla storia si presenta come un work in progress che solo alla fine dell'esperienza individuale troverà una definizione precisa, unitaria e coerente. Brevemente, ricordiamo la scansione temporale e storica presentata dal romanzo. I primi cinque capitoli sono focalizzati soprattutto sulla giurisdizione di Fratta e sui rapporti ancora di stampo feudalistico fa Venezia e le proprie giurisdizioni. La lunga e articolata riflessione storiografica e l'insistenza sui procedimenti legislativi e giudiziari è importante però per focalizzare i rapporti con la Repubblica di San Marco e per delineare, seppur quasi caricaturalmente, la progressiva decadenza e corruzione dell'oligarchia veneziana. Dal cap. VI, dopo il primo eroicomico assedio di Fratta del 1786, si seguono più da vicino, anche per la presenza di Carlino a Padova, le vicende della crisi e della caduta di Venezia, e l'inizio dell'influenza della Rivoluzione francese e dei suoi presupposti teorici con la formazione della Legazione francese, di cui fa parte anche Lucilio. Lo stesso Carlino, come ci informa la rubrica del cap. VII, "odor[a] da lontano la rivoluzione di Francia". Nel cap. VIII si rende conto dei primi sussulti democratici italiani,95 e poi ancora (capp. IX e X) della 'conversione' di Carlino alle posizioni democratiche e filo-francesi grazie all'amico Amilcare Dossi e a Lucilio (come si vedrà più avanti, però, le posizioni ideologiche di Carlino non saranno sempre lineari e coerenti). L'importanza del cap. X va sottolineata per il ruolo di Avogadore di Carlino nella rivolta di Portogruaro e per l'incontro con Napoleone. A Portogruaro, Carlino, arrivato come Cancelliere di Fratta per difendere i localistici diritti della giurisdizione, diventa il portavoce di una folla che, spinta dal fervore per la Rivoluzione francese, assedia prima il palazzo del Vescovo e poi quello del Capitano di giustizia. In questa scena, dal sapore quasi eroicomico, Carlino (e Nievo) dimostra l'impossibilità di compiere la rivoluzione senza l'appoggio del popolo. La folla contadina, infatti, conservatrice, materiale, condizionabile, deforma lo slogan francese "liberté, égualité, fraternité" in "libertà, pane, polenta". Una rivoluzione del popolo dovrebbe invece farsi carico prima dei bisogni concreti dei contadini, e di garantire a questi un obiettivo per costruire uno stato e una società comuni nell'interesse di tutti. L'imposizione dell'unità, come avverrà invece in Italia, da parte di pochi, tradisce già in partenza il concetto di libertà, non più conquistata ma subita. Queste riflessioni, che Carlino sviluppa nella stesura delle sue confessioni a partire da esperienze personali, sono ben applicabili alla storia risorgimentale italiana, e tornano anche riguardo ai francesi: ancora ideali imposti dall'alto, ancora privilegi di pochi, ancora soprusi da parte dei conquistatori. Carlino capisce che gli ideali sono un fine per cui combattere solo per pochi; la maggioranza maschera invece con gli ideali la propria volontà di potere. In questo senso, anche l'incontro con Napoleone diventa importante per ribadire il cinismo delle operazioni francesi. A Carlino che chiede giustizia (parola-chiave della 'filosofia della storia' di Carlino) per il martirio della contessa, un Napoleone colto in una situazione da camera risponde che "la libertà val bene qualche sacrificio! Bisogna rassegnarsi" (p. 452).96 Il giudizio di Carlino su Napoleone sarà, in più occasioni, critico e severo, denunciando i soprusi, le mancanze dell'esercito francese e il cesarismo del nuovo dittatore. Più volte però lo stesso Carlino sottolinea l'importanza che l'impresa francese ha avuto nel risvegliare gli italiani alle idee democratiche, ribadendo l'ambiguità delle sue posizioni. Si prosegue poi, nei capp. XI-XIV, con la nascita della democrazia veneziana e il ruolo di Carlino come segretario della Municipalità. Anche qui, il protagonista oscilla tra la fiducia negli ideali democratici e nei francesi e la disillusione per i soprusi subiti e per la fede cieca nei miti della rivoluzione. A ribadire quest'ultima posizione, la festa per la Repubblica Cisalpina,97 in cui il dialogo sul significato della Repubblica fra alcune donne presenti alla cerimonia sottolinea il mancato coinvolgimento del popolo, e di conseguenza l'incomprensione di questo, nel processo politico italiano. Carlino partecipa poi alla Rivoluzione napoletana del 1799 al comando di Ettore Carafa (capp. XVI-XVII), è a Genova per le ultime lotte rivoluzionarie e diventa Intendente della Repubblica Italiana a Bologna, rinunciandovi dopo l'autoproclamazione di Napoleone a imperatore (cap. XVIII). Dopo la caduta di Napoleone (cap. XIX), Carlino è impegnato sul campo negli Abruzzi al comando di Guglielmo Pepe, e poi a Napoli durante i moti del 1820-21 (cap. XX). Nel cap. XXI è invece Donato, figlio di Carlino, impegnato dei moti in Romagna del 1830. I capp. XIX-XXI sono anche quelli i cui viene ricordata l'epopea greca, la cui spinta unanime del popolo, nonostante la povera psicologia dei suoi protagonisti, viene presa come modello, diventato quasi allegoria, di quello che dovrebbe accadere in Italia.98 Il romanzo si chiude con la fuga di Giulio per il rimorso nei confronti dei suoi comportamenti, i moti del 1848-49 a Venezia con gli austriaci cacciati da Pepe, e con la successiva capitolazione di Venezia (cap. XXII). Il diario di Giulio ripercorre poi gli ultimi avvenimenti del processo di unificazione: i moti del 1848-49 a Roma, l'incontro con Garibaldi e l'impresa garibaldina in America latina del 1855, in cui si riconosce forse la figura del comandante Silvino Olivieri, che aveva tentato di istituire una colonia militare in Argentina (cap. XXIII). Come ha osservato Casini, man mano che il racconto si avvicina al presente la narrazione si rivolge progressivamente sempre di più ai contemporanei (parlando della rivolta veneziana del 1848 Nievo omette alcune informazioni necessarie al lettore odierno, dicendo che gli avvenimenti si sono svolti "nel modo che tutti sanno"), a volte cadendo nella rete della retorica risorgimentale. Mai però una ideologia viene elevata sopra le altre; proprio la natura contraddittoria di Carlino è testimone infatti di una dialettica fra le diverse posizioni dei repubblicani.99 4.2 LA 'FILOSOFIA DELLA STORIA' DI CARLINO "Dopo tanti errori, tante gioie, tante disgrazie, la pace della coscienza mi rende dolce la vecchiaia; e fra i miei figli e i miei nipotini, benedico l'eterna giustizia che m'ha fatto testimone ed attore d'un bel capitolo di storia, e mi conduce lentamente alla morte come ad un riposo ad una speranza". Dalla rubrica cap. XXIII, qui citata, emerge chiaramente l'idea di storia alla base delle Confessioni, che è senza dubbio legata all'intreccio fra la storia individuale e la Storia. Carlino nel corso delle sue confessioni ripete e ribadisce più volte che la storia degli individui non è una monade solitaria, ma al contrario essa è strettamente implicata con la storia di tutti. Questo intreccio è direttamente verificabile a partire dalla stessa storia individuale di Carlino (subito riassunta fin dalle prima righe: "Io nacqui veneziano [...]; e morrò per grazia di Dio italiano", p. 43); come se Nievo utilizzasse ante litteram la categoria della microstoria, sia con scopi appunto storici sia per creare la base narrativa del romanzo. La vita di Carlino assume quindi il ruolo di conferma delle analisi del romanzo sull'uomo e sulla società. A proposito del percorso storico e esistenziale di Carlino, Casini ha parlato di "idealismo storico-filosofico",100 ritenendo possibile individuare nella riflessione del protagonista una sorta di 'filosofia della storia' che solo attraverso uno sguardo retrospettivo riesce a trovare un significato comune a tutte le riflessioni e a tutte le esperienze vissute. Uno dei concetti fondamentali che stanno alla base dell'idea di storia di Carlino è quello di una storia governata dalla Ragione, in cui le idee trovano concreta attuazione grazie all'impegno individuale. Dato che la vita di ciascun individuo è strettamente legata alla Storia, l'obiettivo dell'uomo consiste nel ricercare sempre un "ministero di giustizia" (p. 947), che lega l'azione individuale al bene comune. Queste riflessioni non costituiscono però il retroterra delle posizioni ideologiche di Carlino, ma vengono elaborate in fieri, e sono strettamente collegate alle esperienze concrete. Nella formazione ideologica di Carlino riconosciamo una svolta fondamentale nelle vicende che ruotano attorno ai capp. VIII e IX. In questo momento, infatti, Carlino viene a contatto con le idee rivoluzionarie di Amilcare e ritrova il diario di Martino, che pone in lui la coscienza della necessità di una totale adesione ai precetti evangelici (cosa ben diversa, come dimostrano le opinioni del protagonista in proposito, dai precetti e dai comportamenti della Chiesa come istituzione). Queste posizioni solo apparentemente antitetiche daranno vita alle riflessioni che prenderanno corpo nelle confessioni. Un altro momento di svolta, soprattutto in senso antropologico, è rappresentano dalla caduta di Venezia prima e di Campoformio poi, che condurranno il protagonista all'esilio a Milano e che coincidono con l'addio alla giovinezza (cap. XI). Nelle sue riflessioni e nei suoi reiterati esami di coscienza, Carlino affronta spesso i temi della giustizia e dell'esemplarità. Il protagonista delle Confessioni è infatti convinto che l'impegno di ognuno debba costituire un esempio per gli altri, in una catena generazionale che lotta per un obiettivo comune (in questo caso l'unità nazionale). A queste riflessioni tuttavia Carlino giunge solo ottuagenario, in un momento di serena contemplazione e di vita tranquilla. Nelle fasi concrete della sua esperienza, infatti, le indecisioni sono molteplici e la linea da seguire non è sempre ben marcata. Carlino, come ben rilevato da Mengaldo, è un personaggio ambiguo, che non ha una fede o una causa forte per cui combattere e a cui dedicarsi interamente. I suoi valori sono più che altro morali, prepolitici, e non riflettono una precisa posizione all'interno del dibattito democratico. Anzi, spesso Carlino si dimostra scettico o quantomeno perplesso nei riguardi dello smisurato entusiasmo di Amilcare o nella fede cieca di Lucilio nella rivoluzione e nell'intervento francese ("Chi ci avrebbe dato queste ottime istituzioni, queste leggi eccellenti? Non certo gli inetti e spensierati governanti di allora. Chi dunque? Una gente nuova, giusta, virtuosa, sapiente; e dove e come trovarla?, e come portarla a capo della cosa pubblica?", cap. IX, p. 390). Questo scetticismo dimostra in sostanza una lucidità e capacità di analisi, anche se poi immancabilmente vinta dalla sua natura illusa e sempre pronta a essere trascinata negli eventi dall'entusiasmo altrui più che da motivazioni a lungo pensate. Il riesame delle proprie esperienze porta però Carlino a comprendere la propria illusione giovanile: "In verità io ci avrei capito poco ora, che di quel guazzabuglio mi do in qualche maniera ragione. Ma a que' tempi di letargo appena smosso, di annebbiamento intellettuale, e di infanzia politica, qual più grande uomo di governo ci avrebbe capito più di me?" (p. 390-1). Spesso poi nelle Confessioni troviamo espressioni come "le mie opinioni moderate di allora" (cap. VII, p. 342), quando ricorda di aver dedicato un Requiem a Luigi XIV ghigliottinato; "Se ne ride ora che sappiamo il futuro di quel passati, ma allora fiducia era immensa", (cap. XV, p. 609); "Confesso che anch'io partecipai generosamente alle illusioni comuni", (cap. XV, p. 613); "non si intendeva, ma si faceva", (cap. XVIII, p. 730); "credevamo nella libertà, invece avevamo fatto l'interesse dei capi", (cap. XIX, p. 787). Un altro deterrente alla totale dedizione a una causa va ricercato invece nella psicologia di Carlino, personaggio tutto sommato moderato e quasi conservatore, sempre diviso fra pubblico e privato, fra una vita d'azione per la causa rivoluzionaria (l'impegno diretto in molte rivolte del periodo pre-unitario) e una vita tranquilla dedita solo alle occupazioni personali (a Venezia e poi a Londra con la Pisana, a Fratta con la moglie Aquilina). Sia nella vita pubblica che nella vita privata l'etica della responsabilità diventa l'ideale di vita di Carlino. Questa responsabilità è quella individuale che si ricollega ai valori prepolitici di cui si è parlato, ma è anche collegata alla funzione dell'intellettuale verso il popolo e richiama da vicino il problema pedagogico affrontato più volte da Nievo. Carlino comprende, come invece non sanno fare molti suoi compagni rivoluzionari, che non è possibile sostenere "un governo di tutti cercato da pochi e imposto da pochissimi" (cap. XI, p. 476). Per raggiungere uno stato libero e unito è necessario infatti coinvolgere il popolo, senza però imporre idee astratte dato che, non sentendole proprie, i contadini non combatteranno mai per esse. La giusta soluzione, secondo Nievo/Carlino, è educare il popolo a comprendere quali benefici possa trarre dalle lotte rivoluzionarie. Carlino intuisce quindi che per "costituirsi in istituzione statale ci deve essere almeno un momento di unanimità, capace di fondare all'origine la legittimità della nuova realtà statale".101 Tuttavia questi rimarranno solo pensieri; l'atteggiamento di Carlino è votato al pragmatismo e all'attendismo, è limitato e improduttivo, e spesso trova nella vita privata un'alternativa alla vita politica.102 Come uno dei tanti esempi, citiamo l'episodio dell'esperienza del carcere in seguito alle rivolte comandate da Guglielmo Pepe negli Abruzzi (cap. XX). Carlino ricorda che "non per altro che per questo era venuto [recuperare l'atto di morte del padre]; e che essendomi soffermato a salutare il general Pepe, il mio cattivo destino m'avea tirato addosso quel brutto accidente". Ricordiamo ancora che Carlino non rispecchia le posizioni dell'autore, anche se si ha la sensazione che Nievo giochi sull'ambiguità di posizioni del suo personaggio per smentire o insinuare dei dubbi su alcune posizioni, e per poi cogliere una verità superiore alla fine delle riflessioni dell'ottuagenario. La conclusione del romanzo, sempre secondo Mengaldo, non coincide però con la fine della confessioni, ma va ricercata nei tempi lunghi della storia, quando alla pace interiore di Carlino si aggiungerà la stabilità della nazione italiana. È la Storia dunque la vera protagonista del romanzo, e la vita di Carlino diventa un mezzo per raccontarla e per giudicarla, ("Ho misurato coi brevi miei giorni il paso d'un grande popolo", "la mia speranza sopravviverà per diventare certezza e trionfo", cap. XXIII, p. 948). 4.3 NIEVO E MAZZINI La collocazione delle Confessioni nel panorama storico del movimento nazionale preunitario, permette di configurare questo romanzo anche come "opera politica, scritta per i contemporanei e portatrice di un suo messaggio, anche se non alla politica deve i suoi meriti né chiede un giudizio".103 Le questioni politiche infatti, benché presenti, non acquistano un ruolo fondamentale nella narrazione, e vengono per lo più affrontate in relazione alle vicende personali del protagonista piuttosto che delineate e spiegate teoricamente. I personaggi, poi, non sono costruiti a partire da una ideologia politica fissa, ma assumono sfaccettature diverse in relazione alla loro situazione storica concreta, cosa che avviene soprattutto, come visto, per Carlino. Non è poi possibile riuscire a stabilire quali siano esattamente le posizioni di Nievo riguardo le varie correnti democratiche,104 anche perché nessun personaggio diventa direttamente portavoce dell'autore, ma piuttosto l'autore inserisce i suoi dubbi e le sue riflessioni all'interno della dialettica fra i personaggi. Entrando più direttamente nelle questioni politiche, vediamo che le idee di D'Azeglio e di Balbo vengono ricordate relativamente alla capacità di Carlino di intuire questioni comprese dagli storici solo nella generazione successiva (cap. XIX). Si allude forse qui alle idee patriottiche ma moderate sostenute da Balbo nelle Speranze d'Italia (1844) e da D'Azeglio negli Ultimi casi di Romagna (1846), anche se spesso le loro posizioni sono divergenti. Riguardo a Lucilio, si è discussa la possibilità, mai definitivamente chiarita, che il medico rivoluzionario sia la rappresentazione dello stesso Mazzini. Al di là di questa ipotetica identificazione, Lucilio rappresenta sicuramente posizioni oltranzisticamente giacobine, e può essere definito un "personaggio-principio", contrapposto a Carlino "personaggio a tutto tondo, vivente".105 Questa contrapposizione riflette l'ambivalenza di Nievo nei confronti delle posizioni mazziniane. Nelle Confessioni infatti, sebbene Carlino rappresenti una sorta di ironca e moderata alternativa agli entusiasmi giacobini (e mazziniani), sono tuttavia presenti tematiche e ideologie che rimandano al pensiero politico di Mazzini. Innanzitutto, l'importanza dell'educazione nel processo sociale, che valorizza il ruolo degli intellettuali come coloro che hanno il compito di avvicinare il popolo agli ideali risorgimentali attraverso una riabilitazione della folla popolare che miri alla presa di coscienza dei valori unitari, sommati al soddisfacimento delle esigenze concrete. Toni mazziniani, in particolare sull'idea di 'popolo', si ritrovano anche nella riflessione sulla decadenza veneziana nel cap. XI, quando Carlino, in chiusura di capitolo, dice: "Nessuno, credo io, avvisò fino ad ora o formulò a dovere la causa della sua rovina. Venezia non era più che una città e voleva essere un popolo. I popoli soli nella storia moderna vivono, combattono, e se cadono, cadono forti e onorati, perché certi di risorgere", e nel seguente passo: "Allora infatti l'Italia era forse ai primordi della sua terza vita" (cap. XVI), in cui la "terza vita" allude all'ipotesi mazziniana della Terza Roma, la Roma dei Popoli, dopo la Roma dei Cesari e la Roma dei Papi. Il richiamo più forte a Mazzini si ha però nella figura del figlio di Carlino, Giulio, che dopo essere stato cacciato da Venezia durante le rivolte del 1848 contro gli austriaci con l'accusa di tradimento, si redime e tenta un riscatto nell'impresa garibaldina a Roma nel 1849 e poi ancora in America latina. Il diario di Giulio, che ci presenta questi ultimi avvenimenti, risulta meno riuscito dal punto di vista narrativo rispetto alle confessioni del padre; tuttavia è forse possibile scorgere nelle parole e nelle esperienze di Giulio un richiamo diretto alle esperienze di Nievo di quegli anni. Nelle parole di Giulio ritroviamo infatti un richiamo diretto a Mazzini, in particolare all'opuscolo Ai giovani (1848), che probabilmente Nievo aveva potuto conoscere. Nella lettera destinata al padre che Giulio scrive prima di lasciare Venenzia (cap. XXII, p. 907), si legge: Vi sono certi momenti nella vita d'un popolo che ne rendono terribili i decreti. Io portai la pena della mia albagia e del mio sconsiderato disprezzo. Non potrò più vivere in quella patria che tanto amava, benché disperassi di vederla risorgere; essa si vendica del mio codardo abbattimento respingendomi dal suo seno appunto nell'istante che si raccoglie d'intorno tutti i suoi figliuoli a trionfo e a difesa. Nel Mazzini di Ai giovani, sulle cui pagine Nievo ha probabilmente costruito la figura di Giulio, troviamo un analogo richiamo alla consapevolezza di vivere in un momento cruciale della storia nazionale, che costituisce la spinta individuale a partecipare al processo unitario. In apertura si legge: Sono nella vita dei popoli, come in quella degli individui, momenti solenni, supremi, nei quali di decidono le sorti di un lungo avvenire [...]. Allora ogni uomo ha diritto di chiedere all'altro: in che credi? e a ogni uomo corre debito di rispondere: questa è la mia fede [...]. L'Italia è oggi in uno di questi momenti.106 Il dissidio interno di Giulio sulla possibilità di azione individuale per il bene collettivo rispecchia forse anche quello dello stesso Nievo. La questione cruciale, dopo la ripresa e il fallimento delle iniziative di stampo mazziniano, riguardava la scelta fra iniziativa personale per affrettare l'Unità o lasciare che la situazione si evolvesse spontaneamente. Giulio, come Nievo, non prende una posizione netta: rinuncia a irrazionali iniziative personali ma allo stesso tempo non rinuncia all'azione, partecipando attivamente alle lotte garibaldine. In proposito, Casini sostiene l'ipotesi di un possibile trasferimento di ricordi autobiografici di Nievo nel personaggio di Giulio anche relativamente all'episodio della proclamazione della Repubblica romana nel 1849, di cui Nievo riceve notizia durante il suo viaggio verso la Toscana (in Toscana Nievo ha molto probabilmente avuto l'opportunità anche di ascoltare Mazzini). Un riscontro è dato da un episodio dell'Antiafrodisiaco per l'amor platonico che può essere paragonato, per la stessa notizia ricevuta e il medesimo momento storico vissuto, ma non per il tono delle due voci, alla lettera di Giulio sulla proclamazione della Repubblica romana. In conclusione, possiamo affermare che seppur Nievo sia stato in contatto con riflessioni di tipo mazziniano (che come abbiamo visto si riflettono in più occasioni nel romanzo), le Confessioni costituiscono "una fase nel percorso politico di Nievo in cui è più forte l'esigenza della concordia, a costo di subordinare strategicamente all'unità le istanze di carattere democratico o le opzioni repubblicane che potessero indebolire il movimento nazionale privandolo dell'appoggio piemontese. È una posizione [...] che segna una distanza rispetto a Mazzini e alle iniziative solitarie e disperate di tipo mazziniano".107 5. IL NARRATORE E IL SISTEMA DEI PERSONAGGI Carlino è "la grande invenzione del romanzo nieviano. Perché è vero che uno dei grandi personaggi delle Confessioni è il Tempo, come forza che permane e trascorre e si perde nell'eterno ad ogni morte, come scansione del secolo che nei suoi eventi storici promuove la dimensione narrativa; perché è vero che senza quel tempo tanto colmo di storia e non ancora bloccato nei termini esistenziali, Carlino, la vita di Carlino e il suo itinerario morale non avrebbero uno scopo e una verità finale; Carlino senza il tempo della storia rimarrebbe invischiato nelle panie del suo rammemorare che non è un frutto di equilibrio senile o un atto liberatorio, anche se vuol essere ed è un'ammonizione ed un'esortazione all'intelligenza collettiva delle future generazioni. [...] Dentro quel tempo tanto incombente e tuttavia tanto profondo scende lo scandaglio memoriale, che recupera, al di là delle intenzioni premiali, antiche passioni e antichi vizi dell'animo e turbamenti e virtù dimenticati e che fa riemergere azioni e sentimenti, malintesi e meschine ripicche, rancori e rimorsi, purezze e magnanimità propri e altrui. Tutti gli indicatori metacomunicativi che dovrebbero sottolineare la coerente saggezza del testo - come fu nelle vere ma insincere memorie del personaggio se stesso creato dal Goldoni - servono, invece, nelle Confessioni, a confermare l'imbarazzo del vecchio che riscopre - affondando lo sguardo nei suoi primi anni crescenti, nella giovinezza -, nella maturità e nella contermine senescenza, quanto ancora di non risolto, di sospeso, di tormentoso e torbido sopravviva nella sua declinante vita accanto a i conclamati buoni sentimenti.108 La particolare posizione occupata dalle Confessioni all'interno del codice romanzesco deve la propria originalità soprattutto a questa figura di narratore-protagonista. Un'analisi condotta sul doppio binario di un simile statuto narrativo, permetterà di chiarire la natura delle componenti, e di porne in luce le modalità di interazione e di reciproca influenza. Un confronto, infine, con i restanti attori che animano la scena del romanzo, contribuirà a definire, anche da questo punto di vista, la novità del romanzo nieviano entro il sistema dei generi letterari. 5.1 CARLINO NARRATORE Prima di verificare la collocazione dell'opera rispetto ai modelli offerti dalla tradizione letteraria, risulterà proficuo un accenno ai cosiddetti "romanzi minori" del Nievo, ancor più significativo se si considera la compressione cronologica della sua attività di scrittore. Si può infatti ascrivere al periodo che va dal 1855 al 1860, la maturazione di quei convincimenti politici, di cui la sua attività di pubblicista e romanziere è l'immediato riflesso. Una parabola iniziata intorno alla metà del secolo, con indagini critiche sulle condizioni di miseria delle campagne settentrionali, approderà alla definizione di precisi ideali, ai quali darà espressione massima il suo capolavoro, e finalmente ad un vero e proprio progetto di azione socio-politica, l'incompiuto Frammento sulla Rivoluzione Nazionale. Va aggiunto che nel 1854 gli Studii sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia, pubblicati a puntate su "L'Alchimista friulano", definivano con elevata consapevolezza i caratteri di una poetica già matura, pre-ascoliana, che vedeva nel dialetto "il serbatoio vivo della lingua comune", in evidente contrasto con la tesi manzoniana. Quindi, da un lato, le opere immediatamente seguenti vedono l'attuazione pratica di questi principi: Il Novelliere campagnolo del 1855, rimasto inedito, Angelo di bontà ultimato nel 1855 ma edito l'anno successivo, Il Conte Pecoraio del 1856, e ovviamente le Confessioni, iniziate nel dicembre del 1857 e già ultimate nell'agosto del 1858; dall'altro, nell'opera maggiore, la scelta di una lingua "viva" conversevole e impura, va di pari passo con non poche professioni di antiletterarietà, obiettivo non nuovo per Nievo, coerente alla sua poetica popolare (in senso ottocentesco, proiettata verso il popolo), che si può far risalire fino alla sua prima opera in prosa: L'Antiafrodisiaco per l'amor platonico, del 1850/1. Si tratta della parodia di un epistolario amoroso, anzi di quelle lettere scritte dall'autore a Matilde Ferrari, lo sfogo liberatorio per una relazione appena conclusa, in cui si mescolavano già verità autobiografica e invenzione. Pur essendo un testo destinato a circolazione privata, il suo stile pare scaturito dalla necessità morale dell'autore, lontanissimo da una razionale scelta di poetica; inoltre, non è raro trovare elementi di quella fenomenologia amorosa che quasi dieci anni dopo caratterizzerà la passione di Carlino, una sorta di Incognito (questo il nome del mittente) rasserenato, ormai ottuagenario e dunque capace di un pacato giudizio sul passato. L'espediente del narratore-protagonista si rivela perciò prezioso, non soltanto per superare difficoltà di natura formale, ma anche per rendere feconde sul piano letterario riflessioni e idee che compongono la stratificazione del messaggio contenuto nel testo, con notevole profondità di livelli semantici. L'Antiafrodisiaco rappresenta, inoltre, per le Confessioni, l'archetipo di una narrazione in prima persona, mai più tentata fino al 1857, poiché, misurandosi con il genere romanzesco "tradizionale", Nievo sembra subire maggiormente l'autorevolezza del modello di narratore onnisciente manzoniano, con esiti piuttosto sbiaditi, forse più realisticamente vivaci nel racconto breve del Novelliere. Tuttavia, la finzione autobiografica del narratore autodiegetico, è parzialmente sperimentata anche nei romanzi minori, linguisticamente connotati in misura coerente, ma con sensibili differenze rispetto alla voce di Carlino. Romagnoli parla a questo proposito di "coro senile", in quanto sia il notaio Chirichillo e il patrizio Niccolò Formiani in Angelo di bontà, sia Santo nel Conte Pecoraio, sono personaggi che parlano davvero secondo il proprio status sociale e generazionale, ma è Carlone, un bifolco mantovano, la voce che più da vicino ricorda Carlino. Evidenti le analogie fra i due, a partire dal nome, radicato nella memoria di Nievo: Carlo Marin era infatti il nome del nonno dell'autore, testimone delle ultime sedute del Maggior Consiglio della Repubblica veneziana, ma soprattutto abile affabulatore, che, avendo l'abitudine di intrattenere il nipote con i racconti della sua gioventù, può considerarsi la figura archetipale per i suoi narratori. Anche il ruolo nella fictio narrativa è il medesimo, poiché soltanto ad una lettura di secondo grado si potrebbe distinguere la voce del narratore e quella dell'autore nei racconti della silloge de Il Novelliere campagnolo (opera completata nel 1856 e mai data alle stampe): Il milione del bifolco, L'avvocatino, La viola di San Sebastiano, e i due incompiuti I fondatori di Treppo e L'aratro e il telaio. Bisogna però badare al fatto che lì la voce narrante si finge trascritta, come nel manzoniano "manoscritto ritrovato", mentre Carlino scrive di proprio pugno anche il Proemio della sua confessione, benché, probabilmente, preferirebbe poterla comunicare e tramandare oralmente. Del resto, egli si pone nei confronti del lettore come un narratore-conversatore, alla ricerca di un rapporto di familiarità e complicità, attraverso un massiccio utilizzo dell'understatement, sfruttando insistentemente gli elementi fatici e conativi del discorso e numerose formule allocutive, che trasformano il racconto scritto in un "racconto orale". Questa tendenza, ancora una volta, è ascrivibile alla poetica popolare del Nievo, che funzionalizza la mimesi di una scrittura spontanea, non esercitata, antiletteraria appunto, alla caratterizzazione credibile di un narratore di media cultura, veneto, che non aveva mai praticato l'arte dello scrivere. Nonostante la presenza di queste significative novità, che innovano condizioni narrative pure tradizionali, ma autonomamente giustificate dall'originale codice "generico" delle Confessioni, non va dimenticato che Nievo non poteva non essere a conoscenza della nutritissima tradizione settecentesca dei vari Memoires, Autobiografie o Vite scritte da personalità notevoli come Vico, Casanova, Goldoni, Gozzi, Da Ponte, Alfieri, Muratori etc., i quali avranno inevitabilmente influenzato l'invenzione delle Confessioni. Carlino, del resto, è uomo del Settecento nella misura in cui ha trascorso i primi venticinque anni della sua formazione nel castello di Fratta, teatro dell' "ultimo e ridicolo atto del dramma feudale", perciò è possibile rintracciare, fra le righe della sua autobiografia, i punti di riferimento letterari che Nievo ha voluto sfruttare per ottemperare all'istanza di verosimiglianza richiesta dal genere prescelto; inoltre, attraverso l'epistolario, gli articoli critici e le numerose citazioni, è stato possibile ricostruire con un certo margine di sicurezza la biblioteca dell'autore, e scoprire così che Nievo aveva sicuramente letto Goldoni (Memoires e il teatro), Rousseau (Confessions e Nouvelle Heloïse, modello dichiarato delle Confessioni), nonché Sue, De Kock (per il Conte Pecoraio) e Poe (ancora per le Confessioni). Esemplare testimonianza del suo rapporto con i modelli appena citati è l'utilizzo delle rubriche, elementi paratestuali frequentissimi nelle memorie del '700 e mai utilizzati fino ad allora da Nievo. Egli affida alle sue rubriche due funzioni principali: suscitare interesse per il contenuto del capitolo, grazie al tono parodico che spesso le caratterizza, e suggerire ai lettori la chiave morale o politica per interpretare correttamente il testo (funzione metadiegetica); inoltre, alcune si sono dimostrate particolarmente utili per suffragare la tesi di chi, come Mengaldo, ipotizza una tripartizione della materia narrata: posto che è impossibile per noi ricostruire la reciproca cronologia di composizione fra rubriche proemio e testo, è comunque innegabile che esse si mantengono più fedeli al contenuto e allo spirito del testo rispetto al proemio (cfr ultima rubrica/proemio). La rubriche sono dunque il segno tangibile della volontà nieviana di accostare il testo ai modelli settecenteschi, rinnovandone però l'eredità. Anche il romanzo europeo è presente nell'opera, come punto di riferimento polemico piuttosto che fonte di materiali compositivi, anche se, come si vedrà nell'analisi del sistema dei personaggi, i portati di questa tradizione non sono in alcun modo trascurabili. Esaminiamo ora schematicamente, le conseguenze che ha avuto per la narrazione la scelta radicale di un punto di vista unico, o focalizzazione interna fissa. * Cambi di velocità nel racconto: le pause o digressioni riflessive sono ben mimetizzate nella psicologia e nell'età del narratore, e non vanno mai interpretate come ingerenze da parte dell'autore; * Modalità narrative: scena / sommario, corrispondono ai due macrotemi dell'opera, ovvero al racconto delle vicende private è riservato il primo trattamento, il racconto dettagliato o dialogato, mentre la narrazione dei fatti storici si snoda per sommi capi; * Assenza di discorso indiretto libero: dal momento che il racconto è completamente filtrato dalla voce di Carlino, sarebbe quanto meno contraddittorio soggettivizzare la voce degli altri personaggi, ai quali viene riservato lo spazio ampio del discorso diretto. Da un lato, un dialogo di tipo solenne, specialmente in presenza del personaggio di Lucilio, è investito, insieme agli excursus riflessivi del narratore, della valenza ideologica del romanzo, come accade in molti altri autori ottocenteschi (ad esempio Dostoevskij) che mettono così in scena i contrasti ideologici immanenti nel testo; dall'altro, il modello di Gozzi e Goldoni aiuta Nievo a rendere il cosiddetto "dialogo teatralizzato" particolarmente agile e mimetico del ritmo di una conversazione verosimile, eliminando il più possibile gli elementi connettivi e riducendo lo stesso numero delle battute fino ad ottenere vere e proprie sticomitie. Tuttavia, il discorso diretto non diventa mai uno strumento di caratterizzazione individuale, dal momento che la presenza di un narratore omodiegetico annulla il problema della convenientia del linguaggio ai personaggi, e, in ultima analisi, i dialoghi saranno sempre soltanto discorsi riferiti da Carlino. La teatralizzazione resta comunque un ingrediente importante per sottolineare nel narratore stesso la dialettica fra attore e spettatore delle vicende, e per separare autenticità e finzione tanto nel racconto quanto nei personaggi primari o secondari. Unica occasione di mimesi è, nel capitolo VIII, la trascrizione del diario di Martino, ma anche qui l'autore si limita a sfiorare questa possibilità, conferendo sì alla prosa del servo Martino una sintassi povera e paratattica, ma optando per un lessico non regionalizzato in modo sensibile rispetto a quello dell'intera opera. Mengaldo, infatti, esclude le Confessioni dalla linea polifonica del romanzo moderno (vedi Balzac, Tolstoj, Dostoevskij), e definisce Nievo un "narratore ancora manzoniano", che non concepisce ancora personaggi autonomi rispetto al proprio narratore, anche a causa dell'arretratezza culturale e politica in cui versava l'Italia dell'epoca (rispetto alla Francia di un Balzac, ad esempio), dove le differenze sociali non sono avvertite come possibili fattori di variabili psicologiche; * Altri punti di vista intervengono a sospendere temporaneamente la focalizzazione interna, attraverso espedienti come il racconto di secondo grado, il racconto delegato, o lo slittamento nell'ottica del narratore onnisciente, laddove si raccontano episodi o si riportano conversazioni a cui Carlino non ha potuto assistere; * Ironia, resa possibile dal fatto che il narratore, come afferma Genette, ne sa sempre più del protagonista. Infatti, la distanza che Genette presupponeva fra il narratore di terza persona e i personaggi, viene surrogata nel caso delle Confessioni, dalla distanza cronologica che separa il sé-attore del racconto e il sé-narratore ottuagenario, che esercita appunto l'ironia verso il protagonista. Il punto di vista rievocativo comporta dunque la compresenza, nello stesso protagonista, di due ottiche non di rado divergenti: l'una risalente al momento della rievocazione, l'altra al momento rievocato. Tutto questo sta alla base dello schema di giudizio costante, allora-ora, sul quale è articolata la struttura narrativa della confessione di Carlino ottuagenario. * Legge di sviluppo delle Confessioni: ripropone quella tipica del Bildungsroman, cioè da una situazione di contrasto iniziale, si giunge all'armonia finale, alla concordia fra tutti i personaggi principali, con Lucilio, Carlino e Pisana riuniti insieme a Londra, che propone, ad un più profondo livello semantico, un'allegoria della rinascita politica e civile italiana, creando una dimensione ulteriore nel racconto, che proietta, anche attraverso i numerosi cenni profetici e appelli al futuro, la vera conclusione al di là di quella narrata, fuori dalla storia (narrata) ma dentro la Storia. È proprio questo orizzonte d'attesa a trascinare il racconto fino alle soglie della morte di Carlino, che ben prima aveva cessato di esercitare il suo ruolo di protagonista attivo, finendo per affidare anche la sua autorità di narratore al figlio Giulio (vedi ultimo capitolo), che si incarica così di sopperire alla perdita di "romanzesco" nella vita di Carlino, condizione necessaria per non cadere nell'orizzonte della cronaca e restare in quello del romanzo storico. Per concludere è opportuno ribadire, in primo luogo, che non ci troviamo di fronte ad un narratore onnisciente, anzi le sequenze riflessive o descrittive si giustificano pienamente e soltanto nella prospettiva dell'ottuagenario; inoltre la prosa di Carlino si caratterizza non di rado per una certa perplessità (i frequentissimi "forse", o altre locuzioni esprimenti dubbio etc.), e per un atteggiamento non assertivo bensì interrogativo, soprattutto nei confronti della Pisana, come si vedrà meglio in seguito. In secondo luogo, va precisato che non si tratta di un narratore di tipo sterniano, come spesso è stato detto, poiché, pur rimanendo Sterne un punto di riferimento irrinunciabile per la produzione letteraria nieviana, la struttura dinamica delle Confessioni rende impossibile, se non per brevi tratti, un confronto con il suo romanzo di tipo statico. Nievo, comunque, non rinuncia alle digressioni metanarrative tipiche di Sterne, le quali anzi si susseguono numerose nel corso della rievocazione autobiografica, rimotivate, però, dalla scrittura di un narratore inesperto e dal suo rapporto, a volte conflittuale, con la materia narrativa. 5.2 CARLINO PERSONAGGIO Noi lettori veniamo a conoscenza del protagonista in quanto egli si rappresenta, si auto giudica, e la qualità della sua personalità che viene principalmente sottolineata è la mediocrità, tanto che Carlino è stato definito univocamente "eroe medio" o "anti-eroe". I fattori che concorrono a creare questo tipo di immagine sono sostanzialmente tre: la poetica popolare dell'autore, il collocarsi dell'opera nella prima fase (così come è stata identificata da Lukàcs) della parabola del romanzo storico, nella quale la medietà del protagonista è un topos molto diffuso, infine, la natura riformistica e moderata delle posizioni politiche di Carlino, che non corrispondono né a quelle mazziniane, incarnate da Lucilio, né a quelle dell'autore. Egli infatti, pur affascinato da ideologie estremistiche, è portato naturalmente ad un atteggiamento prudente, alla ricerca del compromesso, che ridimensiona l'astrattezza delle posizioni più radicali, ma nello stesso tempo lo imprigiona in un pragmatismo troppe volte improduttivo e attendistico. Una simile ambiguità contraddistingue tutte le componenti dell'ideologia del protagonista, che, per essere compresa, richiede un esame incrociato dei tre termini caratterizzanti il suo status di personaggio nella narrazione: ideologia, psicologia e condizione sociale. La variabilità di quest'ultima del resto rientra perfettamente nel codice del Bildungsroman, del romanzo d'avventura e del romanzo sociale inglese, dove ritroviamo il topos dell'orfano che scala la gerarchia sociale attraverso successivi colpi di scena e agnizioni. Nelle Confessioni, tuttavia, il motivo del self-made man, risulta trasformato dall'acume realistico di Nievo, capace di costruire la relazione amorosa fra Carlino e Pisana come un rapporto condizionato dalla natura originaria del loro status sociale, cosicché la dinamica servo-padrona si annulla e si inverte soltanto alla fine, nel sacrificio di estrema dedizione della Pisana a Londra. La sua origine servile è stata intanto, per Carlino, motivo di precoce maturità, e, tralasciando la questione linguistica, di costanti comportamentali, come ad esempio un atteggiamento tendenzialmente servile, moralistico e riduttivo, proprio nei confronti di quei personaggi che, come Pisana, sono invece sopra le righe, fuori dal comune. Bisogna guardarsi dai tentativi di ricondurre i caratteri costitutivi del protagonista ad un sistema unitario, innanzitutto perché Carlino non è affatto, come si è visto, una figura unidimensionale, perciò, l'analisi che egli opera su se stesso non può che costituire una prospettiva parziale, sottoposta com'è alla pulsione oggettivante e razionalistica della ricostruzione narrativa, incapace di svelare con sincerità la realtà psicologica del personaggio-narratore. Mengaldo considera Carlino un "personaggio allo stato fluido", la cui medietà non sarebbe un dato statico, ma il punto d'incontro delle contraddizioni che lo attraversano. Carlino quindi, è mediocre e vecchio, ma anche "mediocre perché vecchio", un ottuagenario che lascia in eredità al mondo la propria testimonianza di vita, la quale, se non riesce ad essere esemplare, è comunque costantemente proiettata in una dimensione eterna, ideale, salvata dall'oblio del tempo per essere utile monito alle future generazioni. Entra ora in campo la problematica pedagogica che, intrecciandosi con quella religiosa, costituisce un nodo centrale nel romanzo, nonché la chiave per comprendere le ragioni di questa irriducibilità del protagonista, e del suo universo ideologico, ad un orizzonte univoco. Partiamo dal testo. I capitoli VIII e IX sono fondamentali per la formazione di Carlino. Egli infatti attraversa qui una duplice conversione, dall'etica cristiana di Martino al cattolicesimo reazionario di padre Pendola, e da questo alle idee illuministiche di Amilcare Dossi. È ormai venuta meno per il giovane la guida di Martino, caso eccezionale nel mondo dell'ancien regime di maestro, che aveva cercato di orientare l'educazione di Carlino fanciullo, con il solo strumento della sua cultura popolare, semplice, ispirata ad un sincero evangelismo, e tuttavia capace di indirizzare il bambino verso un'etica della responsabilità e del dovere, in senso prepolitico e poi anche politico, che spingerà Carlino alla costante ricerca di un ideale, di un "dovere" più alto della propria individualità, al servizio del quale impiegare la propria vitalità giovanile. Il rischio di una simile disponibilità alla ricerca sta proprio nell'individuare il "dovere corretto" a cui votarsi. La corruzione delle originarie virtù cristiane da parte di Padre Pendola è, infatti, l'esempio del pericolo corso dal protagonista, poi sventato grazie ai lumi di un personaggio positivo, che sconfiggono quella sclerotica forma di cattolicesimo a vantaggio di un più maturo e laico assorbimento degli autentici insegnamenti cristiani. Questa parabola tuttavia, non è priva di ambiguità, se è vero che Carlino più volte si mostra consapevole dell'astrattezza delle idee illuministiche sul piano politico, e del fatto che tanto queste quanto l'etica cristiana, sono opzioni valide e degne per il perfezionamento morale dell'individuo e per il suo impegno nella società, ma non sono superiori l'una all'altra; anzi viene riconosciuto, da un lato, alla religione cristiana un maggiore potere pedagogico, per la sua azione coercitiva e di freno esercitata attraverso i dogmi, dall'altro, alla religione mazziniana della patria una maggiore capacità, rispetto ad ideologie come quella illuministica, di sussumere i valori etici del cattolicesimo. Carlino, che come Voltaire aveva avuto una prova ad evidentiam dell'esistenza di Dio, nella contemplazione della natura marina (vedi capitolo III), sa bene di aver optato per quest'ultima posizione soltanto perché influenzato da contingenze biografiche e condizionamenti psicologici, le cosiddette "circostanze". Qual è dunque il modello educativo proposto da Nievo? L'autore affronta il problema pedagogico da una duplice angolazione: dal punto di vista individuale, egli propone una sorta di teoria della personalità, la cui formazione è un tema centrale nel romanzo, occupato appunto, per tutta la prima parte, da una sottile rappresentazione dell'infanzia di Carlino e Pisana, nella quale sono attive in nuce quelle stesse dinamiche che domineranno la loro relazione adulta; dal punto di vista collettivo, le Confessioni vogliono essere, una volta di più, esemplari, un testamento-modello per la formazione di un futuro cittadino italiano, secondo un principio, che si ritrova esplicitato nel saggio Venezia e la libertà d'Italia (1859): "le nazioni sono composizioni di uomini", ergo la formazione di un nuovo organismo politico, una vera nazione italiana, richiede una previa mutazione antropologica. Nel mondo dell'ancien regime, l'assenza di figure guida, riduce la dialettica pedagogica ai soli termini del "temperamento individuale" e delle "circostanze"; nel progetto nieviano è necessario dunque correggere l' inevitabile influenza di queste ultime sul primo, attraverso una correzione formativa che, da un lato si adoperi per predisporre nel modo più adeguato e proficuo le successive circostanze, dall'altro favorisca la maturazione dei sentimenti prima di quella dei sensi, in vista di un preciso obiettivo. Se per il primato riconosciuto al sentimento e alla facoltà educatrice dell'esperienza, Rousseau può senza dubbio aver influenzato Nievo, per quanto concerne invece lo scopo ultimo di un simile processo educativo, i due si collocano, anche per ragioni storiche, su posizioni diametralmente opposte. Il modello pedagogico proposto da Rousseau nell'Emile, secondo il quale è possibile formare esclusivamente o uomini o cittadini, non può valere per Carlino, che vive in un Italia dove la dimensione politica dell'esistenza non è in conflitto con quella naturale, bensì completamente negata da tutti i regimi che si sono susseguiti nella dominazione del suo popolo, e proprio in quanto assente, preclusa, viene rivendicata dal Nievo, che alla degenerazione in atto della vita sociale oppone la formazione di uomini in grado di essere all'altezza delle responsabilità future. Del resto, il rifiuto di un modello educativo di tipo cattolico, che inculca dall'esterno il sentimento morale, con la forza dell'autorità, si fonda proprio sul principio rousseauiano che vede nella Natura la fonte delle regole inscritte nella Coscienza umana, e fa, quindi, della coscienza stessa la guida per la vita morale. Di qui la predisposizione all'analisi e all'esame di coscienza di Carlino, il cui maggior frutto è proprio il bilancio delle Confessioni, dove il senso di responsabilità e l'indipendenza di giudizio stanno alla base di quella religione del dovere di cui si è appena parlato. La sfera della moralità del resto, non è concepita da Nievo in senso conformistico o astratto-filosofico, ma è animata da valori sociali e prepolitici, come la generosità, il sentimento, il sacrificio gratuito di se stessi, incarnati dagli "uomini dell'ideale", da personaggi quali ad esempio Lucilio, Amilcare e Pisana, contrapposti ai "vivi che son morti", uomini in cui si è spenta la luce dell'ideale a causa della cattiva educazione, delle circostanze avverse, della pigrizia e dei pessimi esempi. Attraverso il maturo realismo narrativo delle Confessioni, Nievo esercita la propria critica contro il mondo contemporaneo, forte della propria esperienza diretta della realtà economico-sociale delle campagne e del ceto imprenditoriale, appoggiandosi anche alle posizioni di Rousseau contro il materialismo. La modernizzazione propugnata dal liberalismo borghese e dal socialismo, assoggetterebbe la vita civile alle leggi dell'economia, sciogliendo così i vincoli di solidarietà sociale che sono la base per la rivoluzione nazionale italiana. Condizione per la sua realizzazione e garanzia contro il fallimento è infatti, come già accennato, l'educazione, la maturazione dell'intero popolo, una conversione antropologica iniziata con la caduta di Venezia, il cui frutto ultimo sarà il compimento del processo risorgimentale. Il Frammento sulla Rivoluzione nazionale del 1859, individuerà poi chiaramente nel rapporto conflittuale fra classe dirigente liberale e masse contadine, la ragione principale del mancato raggiungimento dell'unità morale fra gli italiani, necessaria ad attuare la rivoluzione, come già prefigurato nelle Confessioni dall'ingombrante assenza dei contadini durante moti rivoluzionari, giustificata secondo l'ideologia filo contadina del Nievo, suggerendo implicitamente che, la saggezza concreta di cui essi sono naturalmente dotati, li ha messi al riparo, per mezzo della rassegnazione, da immaturi tentativi di rivolta, inconcludenti e anarcoidi, come si vede nell'episodio fittizio della rivolta di Portogruaro (capitolo X). Una posizione certamente conservatrice, quella di Nievo, ma proiettata nel futuro, per sanare una frattura che paralizza l'unità nazionale, nel pieno rispetto della cultura contadina e della sua religiosità popolare e autentica. Il problema della dialettica con Rousseau109, non si esaurisce nel rifiuto del suo modello educativo (e insieme nella conferma delle condizioni già enunciate: primato del sentimento, religiosità naturale, polemica antimaterialistica, valori politici...), ma coinvolge anche la sfera degli affetti privati, del sentimento amoroso, così come proposto nel Nouvelle Heloïse, a cui Nievo si richiama esplicitamente nel capitolo XX, paragonando Carlino e Pisana alla coppia Saint-Preux / Julie. La modernità dell'amore fra il protagonista e la sua amica d'infanzia, consiste nella carica di passionalità, anche sensuale, che subito lo contraddistingue, e nella straordinaria verità psicologica dei singoli momenti, che rappresentano tutte le fragilità e le debolezze dei caratteri, e giungono ad una sublimazione, in senso dantesco e rousseauiano, soltanto attraverso il generoso sacrificio di Pisana, che riscatta infine i contrasti precedenti e la frequente degenerazione della passione in amore distruttivo, malattia metaforica dello spirito, cosicché soltanto a posteriori, nella memoria dell'ottuagenario, la passione può mutarsi in un amore virtuoso. La forza ordinatrice che regola il mondo naturale non può nulla contro il mondo spirituale, in cui tutto cambia e si muove. Nievo sconfessa così l'equivalenza illuministica fra interno ed esterno, ovvero il rapporto di action/reaction come legge dell'interiorità secondo la Physiologie du mariage di Balzac, che lascia il posto al più moderno sistema morale nieviano, mai univoco. Un romanzo storico del presente come le Confessioni, chiamato a rappresentare le contraddizioni di un momento di transizione della civiltà italiana, non può che riflettere un paradigma instabile degli affetti, una visione mutevole dei sentimenti che, come le situazioni e le categorie sociali, sono pronti a rovesciarsi nel proprio contrario. Nell'alternanza voluta di tonalità e di registri linguistici, fra i quali soprattutto quello umoristico, trova espressione letteraria questa latente instabilità dei sentimenti, che affiora alla coscienza di Carlino dall'auscultazione continua del sé, come accadeva nella Nouvelle Heloise, con oscillazione fra tono elegiaco e di malinconica ironia. Ciò che si rifiuta nelle Confessioni è la razionalizzazione della fenomenologia interiore, la gerarchizzazione dei ricordi, in quanto essi si equivalgono nella momentanea ricomposizione romanzesca, in grado di trasformare la passione in narrazione, superando così l'antitesi maschile-femminile che logorava il tempo presente della relazione. Se già nelle lettere (e nell'Antiafrodisiaco) riscontravamo la medesima fenomenologia amorosa delle Confessioni, il filtro di un'ottica retrospettiva permette ora all'autore di superare anche la visione tragica e uniforme delle passioni, caratteristica di Foscolo e Rousseau; infatti, anche se Ortis costituisce un modello per figure come Giulio Da Ponte o Leopardo, non risolve la rappresentazione di un protagonista, sdoppiato dalla doppia lente dell'umorismo, che vede da un lato il Carlino vittima di una passione quasi mortale, dall'altro riflette sulle contraddizioni dell'animo umano, consapevole delle sue illusioni, in una sorta di Bildungsroman affettivo dominato dall'ossimoro vivente della Pisana, incarnazione del moderno romanzo delle passioni. L'ambivalenza che si viene a delineare in questa composita rappresentazione, rispetto alla lezione rousseauiana, vede contrapposte e compresenti due visioni pedagogico-esistenziali: da un lato, il principio illuministico dell' "uomo-pianta", che attraverso la ragione vorrebbe regolare, educare gli affetti, come se il mondo interiore fosse un giardino coltivato, un locus amoenus, dall'altro il principio della continuità fra il bambino e l'uomo adulto, che conseguentemente implica l'irriducibilità delle passioni, sempre rinnovabili anche soltanto attraverso la memoria, un labirinto irrisolto, a cui si adatta piuttosto la visione di una natura ribelle e primitiva. La coerenza interna di un qualsivoglia schema etico non può reggere l'urto di una rappresentazione della realtà individuale così profondamente irrisolta, confermata dalla puntuale smentita degli eventi ad ogni certezza finalmente guadagnata dal garbuglio del mondo moderno. La metafora di assomigliare l'uomo ad una pianta, che tenerella si torce e si raddrizza a talento del coltivatore, fu bastantemente adoperata, perché possa usarla anch'io come una buona maniera di raffronto. Ma più che una tale metafora varrà a spiegare la mia idea l'apologo del cauterio che aperto una volta non si può più richiudere: gli umori concorrono a quella parte, e convien lasciarli colare sotto pena di guastarne altrimenti tutto l'organismo. Data la sveglia ai sensi come si può negli anni dell'ignoranza, sopravverrà sì la ragione a vergognarsene o a lamentarne la sozza padronanza; ma come sopravviene la forza di debellarli e di rimetterli al loro posto di sudditi?110 Nievo esprime qui chiaramente le due visioni contrastanti a cui si richiama lungo tutto il romanzo, esplicitando così l'insolvibile ossimoricità del reale. Una caratterizzazione così attenta dei rapporti affettivi tra i personaggi, come quella data da Nievo, si spinge fino a creare una tipologia che vede contrapposte le coppie dei personaggi principali, Carlino/Pisana, Lucilio/Clara, Leopardo/Doretta, ognuna rappresentante una categoria, alle passioni comiche o drammatiche di Partisagno, Raimondo, Aquilina e Giulio. La profondità analitica dedicata al trattamento di questa tematica, si deve anche al contemporaneo progetto di un trattato sull'amore, mai portato a termine, entrambi forse stimolati dalla passione vissuta dall'autore nei cinque mesi trascorsi a Milano nel 1858. L'ambiguità è dunque la cifra distintiva dell'universo ideologico nieviano, a cui è garantita la massima espressione possibile, grazie alla fictio autobiografica, dalla nuova codificazione del romanzo storico creata per le Confessioni, che riesce a resistere inoltre, fino alla fine, al rischio dell'identificazione tra autore e narratore, cedendo la parola ad un personaggio diverso nell'ultimo capitolo, dove la ricostruzione storica rischiava di trasformarsi nel diario minimo dell'ottuagenario, i cui giudizi avrebbero esposto eccessivamente (e non sarebbe stata la prima volta) l'autore alla censura governativa. Mengaldo ha avanzato tre possibili interpretazioni di questa contraddittorietà: l'ideologia di Carlino riflette le contraddizioni dell'ideologia nieviana, oppure rispetta realisticamente le caratteristiche del personaggio, oppure rappresenta l'ossimoricità del reale. Lo studioso, e noi con lui, propenderebbe per quest'ultima spiegazione "semplicemente perché essa fornisce una prospettiva di giudizio più ricca e interessante, è un'ipotesi più "forte". In questo modo Nievo avrebbe profittato accortamente della scarsa rigorosità, o diciamo plasticità intellettuale del suo protagonista per suggerirci una visione non univoca ma sfaccettata e complicata della realtà"111. Inoltre, una simile prospettiva permette di conciliare l'alternanza di registri a livello formale, l'instabilità del mondo spirituale e del paradigma degli affetti, la compresenza di due modelli pedagogici contrastanti, con l'etica del confronto col mondo che, in ultima analisi è il punto d'approdo, l'insegnamento che Carlino ha voluto lasciare con l'esempio della sua condotta morale e pragmatica, strettamente dipendenti l'una dall'altra. Quella che forse troppo spesso è stata scambiata dai critici con il fallimento nella costruzione di un personaggio che si voleva esemplare, è in verità il frutto della rappresentazione realistica della fenomenologia dell'esistenza, con la quale l'uomo moderno, laico e libero, è obbligato a confrontarsi, rifiutando soluzioni preconfezionate, incapaci di inseguire il divenire della Storia. 5.3 IL SISTEMA DEI PERSONAGGI Riflesso incosciente di questa oscillazione di fronte al molteplice, soprattutto fra le due concezioni psicologiche e pedagogiche del roussouvismo e dello storicismo, è la categorizzazione dei personaggi, che richiama direttamente la transizione tra mondo vecchio, l'ancien regime, e mondo nuovo, che corre verso l'unità nazionale. Personaggi dinamici Personaggi statici Attraversano un percorso Unidimensionali, perché non di crescita; subiscono uno sviluppo nel Chi sa farsi plasmare dalla corso della narrazione, oppure storia e dalla vita; sono interessati dalla sua parodia: Personaggi dialogici; un processo di invecchiamento che li rende ancora più caricaturali; Chi vive fuori dalla Storia; Personaggi chiusi in sé ; Questa duplicità è rivelatrice della contaminazione nelle Confessioni di due tradizioni letterarie: da una parte il Bildungsroman e il romanzo storico, dall'altra il romanzo statico alla Sterne. La presenza di quest'ultima componente, già rilevata in precedenza, è responsabile del fatto che lo strumento di caratterizzazione maggiormente utilizzato da Nievo sia la descrizione singolativa, o ritratto in piedi, rispetto al quale i comportamenti dei personaggi hanno valore puramente deduttivo, con le uniche eccezioni di Pisana e Carlino, le cui azioni rivelano il suo carattere come sineddoche descrittive. Esasperando una tendenza propria dei grandi romanzieri ideologici (Goethe, Tolstoj, Dostoevskij...), inoltre, Nievo costruisce i propri personaggi per coppie di opposti e complementari, come si è già visto a proposito della tipologia delle coppie di amanti: Clara/Pisana Vecchia contessa/nuora Piovano di Teglio/Cappellano Conte di Fratta/Monsignor Orlando e il Cancelliere Carlino /Lucilio... Nievo rivela così un'elevata capacità di tipizzazione, esercitata soprattutto per il mondo feudale di Fratta e del Friuli, nei capitoli iniziali, dove ritrae con grande profondità le sfaccettature di quel microcosmo, attraverso una pluralità di macchiette e bozzetti critici, i cui atteggiamenti sono fissati in riflessi condizionati grazie alla tecnica del leit motiv e della ripetizione variata, che conferiscono un andamento iterativo alla prima parte del romanzo. A causa del dinamismo della struttura narrativa, le valenze delle diverse polarità possono ribaltarsi, come accede ad esempio alla coppia Clara/Pisana, segnata dal trionfo di quest'ultima come emblema della femminilità del romanzo e il progressivo sclerotizzarsi, rinchiudersi in se stessa e nelle proprie idee un po' astratte e anacronistiche della sorella maggiore. Infatti, nonostante la tendenza dell'autore ad investire pedagogicamente i personaggi di valori esemplaristici (caratteristica tipica di un narratore statico), e a concepire i caratteri in modo relazionale, non c'è mai un rapporto biunivoco fra personaggi e funzioni ideologiche/narrative/romanzesche. Va detto inoltre, che non sempre lo sviluppo che interessa i personaggi dinamici porta ad una evoluzione positiva, poiché, come si vede nelle figure di Clara (da giovinetta ricca interiormente e monaca fuori dal mondo) e di Aquilina (da fanciulla soave e innamorata a moglie bisbetica e bacchettona), essi possono invece andare incontro ad una involuzione, e realisticamente Nievo sceglie di rappresentare un simile regresso in due figure femminili, sulle quali la società del tempo, con le sue istituzioni, esercitava la massima pressione. Errore di caratterizzazione è invece, secondo Mengaldo la figura di Lucilio, per il quale Nievo, intrappolato dall'alternativa sublime/grottesco, stilizzazione astratta/caricatura, riserva per questo personaggio pur centralissimo, un trattamento "statico", che lo trasforma nel simbolo di Mazzini, costruito soltanto con il materiale del sublime. La fattura dei personaggi rivela inoltre la stratificazione del gusto letterario, in particolare la critica agli stereotipi romantici e alla letteratura che li ritrae: vediamo alcuni esempi. Clara innanzitutto, la donna angelicata per eccellenza, subisce una parabola discendente; Giulio Da Ponte, il giovane mondano che divorato dalla vana passione per una bella dama, tenta una fuga volontaristica e patriottica alla Byron, il quale peraltro compare nel testo quasi come incarnazione di un gusto letterario ormai superato; ma la maggiore trasgressione alla tradizione letteraria ottocentesca è rappresentata da Pisana, che non corrisponde a nessuno degli stereotipi femminili dell'epoca: non è cortigiana, come Doretta, né suora, come sua sorella Clara, e neppure moglie come Aquilina, in favore della quale anzi rinuncia al suo amore per Carlino, recitando l'ambiguo ruolo della sorella, spinta da motivi più o meno plausibili ("nec tecum nec sine tecum vivere possum", pulsione al sacrificio, masochismo...) e forse proprio dalla coscienza di non poter essere moglie-madre. Pisana fin da bambina appare come sradicata dalla propria classe sociale, che fuggirà poi consapevolmente in età adulta, trascinando sempre Carlino al di là della soglia della sua mediocrità, della consolante normalità piccolo-borghese. È stata infatti definita una figura fuori dal proprio tempo, ma anche oltre il Tempo, incarnazione dell'idea nietzschiana del femminino anti-borghese: si mantiene sempre al di sopra (aristocratica) o al di sotto (mendicante) della tranquillità borghese, non cade mai al suo interno. Pisana detesta la prudenza, la medietà, le fa orrore la vecchiaia, e non potrà che morire giovane, incapace di attendere la stagione dell'inerzia e della testimonianza. La dimensione temporale che più le si addice, del resto, è il presente, soltanto a lei è concesso, nella narrazione nieviana, di apparire e sparire con reiterati colpi di scena sul teatro grande della Storia, come se fosse l'unico essere capace di sottrarsi al suo divenire, attraversandola ma senza farsene travolgere. Pisana sfugge alla nostalgia del ricordo, tanto cara a Carlino che non di rado risuona nelle sue Confessioni, come ad esempio nel capitolo XIX, dove soltanto Carlino fra le rovine del castello di Fratta si abbandona alla rievocazione della propria fanciullezza. Di fronte ad un personaggio tanto fuori dal comune, perfino la schema di giudizio (allora-ora) del narratore si fa ambiguo, e non è sempre chiaro se la voce giudicante la Pisana appartenga all'IO narratore o al personaggio Carlino, travolto dalla sua personalità esuberante. Infatti, nel corso della narrazione, si danno della donna ritratti spesso ingenerosi, e Carlino mostra di non riuscire ad afferrarla, nemmeno nell'orizzonte pacificato della memoria, di non riuscire fino in fondo a comprendere le motivazioni del suo agire, tanto che perfino il sacrificio estremo, che compensa tutte le ingiustizie nei confronti del protagonista, viene interpretato da quest'ultimo come un "miracolo", come l'estrema manifestazione, questa volta in positivo, della sua irrazionalità, di colei che ha sviluppato i propri "sensi" prima dei "sentimenti", vittima del fallimento di un modello pedagogico ormai superato. Questa immagine speculare e rovesciata di Carlino è l'altra grande invenzione del romanzo nieviano, non una macchietta, ma una donna autentica, la cui psicologia è tratteggiata con grande finezza dal realismo descrittivo dell'autore, fino a creare una figura irriducibile a qualsiasi tipologia ottocentesca di donna letteraria; comunque, la Pisana non può essere il ritratto di una vera donna, irrisolta com'è nel giudizio stesso del narratore, tanto da mettere in crisi la progressione cronologica fra i due punti di vista rievocativi. È, senza dubbio, un personaggio romanzesco nuovo, centro dei nodi irrisolti dell'ideologia e dell'esistenza del suo autore, che nel romanzo storico del presente proietta su di lei i riflessi ambigui delle proprie esperienze amorose, e forse le proprie idiosincrasie verso le donne. 6. LINGUA E STILE NE LE CONFESSIONI DI IPPOLITO NIEVO 6.1 INTRODUZIONE La lingua delle Confessioni e in generale di tutta la produzione di Ippolito Nievo può essere definita "varia": è infatti caratterizzata dalla commistione di diverse componenti, parlate regionali - dialettali (toscana, veneta, friulana, lombarda: "Fieramente cupido dell'unità nazionale, egli doveva però avere una specie di idea di unità linguistica dell'Italia nord - orientale"112.), linguaggio letterario, termini toscani anche arcaici che si spingono a "rivitalizzare il patrimonio lessicale della letteratura giocosa o vernacolare toscana del Cinque e Seicento"113. Insomma leggendo le pagine neviane ci si trova di fronte al netto rifiuto di ogni soluzione centripeta, a una scelta ben diversa dal monolinguismo fiorentino codificato dal Manzoni, a una "poetica della libertà e della spontaneità linguistica"114. Occorre precisare che Nievo non rifiutò il modello manzoniano in toto, ma, come molti dei suoi contemporanei (Cattaneo, Verdi, Dossi, Tenca, De Sanctis), preferì le soluzioni miste della ventisettana al purismo della quarantana e si sentì autorizzato, proprio dalla prima versione dei Promessi Sposi, ad accogliere quei settentrionalismi che concordavano con l'uso toscano e diversi aulicismi. 6.2 LINGUA E STILE IN NIEVO PRIMA DE LE CONFESSIONI La lingua "varia" di Nievo non nasce con Le Confessioni, ma si va formando nelle opere precedenti. Interessante è l'analisi delle cosiddette novelle mantovane115 proposta da Testa, per le somiglianze linguistiche riscontrabili nelle Confessioni: "Lo statuto misto e composito della lingua neviana, la sua tendenza a usare materiali diversi e a sfruttare, di questi ultimi, moduli e forme in dosaggi variabili a seconda degli intendimenti espressivi via via perseguiti, sono aspetti che si trovano, in congiunzione o in frizione con la tecnica narrativa adottata, anche nelle cosiddette novelle mantovane [...] contraddistinte dalla medesima varietà di tessere linguistiche che caratterizza, nel profondo, i maggiori esiti della scrittura neviana "116 Da queste premesse deriva una lingua che si caratterizza per il costante incrocio tra il colto e il letterario e per una serie di elementi "ascrivibili a una scripta ottocentesca riluttante a seguire i dettami della quarantana"117. Tra questi elementi si possono ricordare le scelte relative ai pronomi con la costante adozione di egli, ella, esso in luogo di lui, lei e l'uso di allotropi o sinonimi toscano-letterari come ei, desso, dessi, elleno, esso lui. Altri fenomeni legati alla tendenza letteraria o meglio scritta sono: i- prostetica, enclisi pronominale, dittongazione in -uolo, preferenza per preposizioni articolate sintetiche come colla, pel, pella; gli come rafforzativa del verbo essere (gli è vero); l'antimanzoniana desinenza in -a per la prima persona singolare dell'imperfetto (volea, dovea, avea); nonché l'uso delle forme toscane fo, deggio, veggo; costante uso di il quale/la quale in luogo di che; aulicismi sintattici come la mancanza di articolo con i possessivi, l'anteposizione dell'aggettivo, le forme chiastiche. Anche per quanto riguarda congiunzioni, nessi e avverbi Nievo non rinuncia a forma letterarie, che si ritrovano anche nelle Confessioni118: pria, anco, giacchè, poscia, senonchè, perocchè, imperocchè, infinallora, dacchè, acciocchè, tuttochè, tosto, alla perfine, tal fiata, indarno, cionnonpertanto, omai, al postutto, conciossiache. La componente colta agisce poi anche a livello lessicale con termini aulici, arcaici, letterari: all'uopo, gire, sostantivi in -anza come ragunanza, amanza, tardanza. I toscanismi d'altra parte possono avere non solo intenti nobilitanti ma anche espressivi o comici e, a titolo d'esempio, si possono ricordare alcune voci appartenenti alla seconda categoria: cionco, babbio, corbellare. L'altro polo della lingua neviana è il dialetto. Bisogna sempre ricordare che Nievo non si confronta con un solo dialetto, ma con una molteplicità di parlate, a far la parte del leone è comunque la componente veneta, ma si riscontrano anche fenomeni genericamente settentrionali: parchi fenomeni di fonetica come la palatalizzazione (oglio); più rilevanti casi come il perfetto di prima plurale in forma forte, il condizionale in -essimo, avere ausiliare al posto di essere, certi usi dell'articolo (il zolfanello, un zecchino) e sua omissione, nonché l'uso di alcune preposizioni (a con l'infinito dopo i verbi di percezione, di invece di con, di invece di da). Dal punto di vista lessicale convivono settentrionalismi generici come contare "raccontare", canto "angolo", robba e venetismi più marcati come parare "spingere", puttini "bambini", ecc. (p. 309). Gli aspetti linguistici più rilevanti si possono riassumere in quattro punti: a) ricerca, rispondente ai principi della ventisettana, di corrispondenza tra forme venete e settentrionali e forme toscane e letterarie; b) numero non eccessivo di forme spiccatamente lombarde e mantovane, alle quali però Nievo non ascrive un ruolo caratterizzante; spesso i termini più marcati dialettalmente sono accompagnati da glosse metalingustiche; c) aspirazione alla formalizzazione scritta di un super dialetto interregionale, da cui la scelta di usare termini comuni a più dialetti come il rafforzativo mo, ma anche tosa "ragazza" sia veneto sia lombardo; d) continuità linguistica sotto il profilo lessicale: le varie componenti, dialettali letterarie e toscane, sono dati costanti di un'opzione stilistica che resta coerente di novella in novella. Anche dal punto di vista stilistico e sintattico si assiste a una "sistematica anti-omogeneità"119. Anche qui ricerca di sublime e sprezzatura convivono: da un lato movenze oratorie, poliptoti, moduli aggettivali che perseguono la minuzia descrittiva, bilanciate disposizioni topologiche dei membri, sostenutezza discorsiva (spesso ironicamente adibita alla resa di situazioni umili o a riflessioni che mettono in parodia il parlante), tendenza ipotattica anche nelle zone del discorso diretto, disposizione ternaria; dall'altro incisi, correzioni, ripensamenti e moduli del parlato. Si può efficacemente riassumere con le parole di Testa: "la sintassi oscilla tra due moduli di formalità scritta e tendenziale resa di un'ideale parlata spontanea, vibratile, inquieta, variegata"120. Il discorso neviano sembra il risultato di una sperimentazione che da un lato adotta ampiamente risorse dialettali, dall'altro ricorre solo marginalmente ai costrutti dell'italiano parlato utilizzando altre risorse per risolvere il problema della spontaneità della parola scritta: Nievo si rifà, senza nulla aggiungere, alla tradizione del registro comico della novellistica. Di qui derivano alcuni tratti "bassi", comuni anche alle Confessioni: dislocazioni, pochi che polivalenti e concordanze a senso, mentre sono quasi del tutto assenti lui e lei soggetto e l'indicativo in luogo del congiuntivo. Nel Milione del bifolco in particolare si assiste a un tentativo di stilizzazione letteraria del racconto orale molto simile a quello attuato nelle Confessioni: ricorso a formule allocutive, sottolineatura del sapere condiviso, anticipazione delle repliche altrui, marcature enfatiche, esitazioni e impacci, dimenticanze, ripetizioni, correzioni, riprese, formule d'apertura e chiusura, creazione di effetti d'attesa nell'uditorio. Insomma "l'impressione che Nievo faccia qui le prove di quel processo finzionale che gli consentirà di ascrivere, nelle Confessioni, la scrittura romanzesca alla dimensione orale della lingua e di dare al lettore quei medesimi tratti dialogici di cui investe qui le figure che partecipano alle veglie di Carlone"121. Per quanto riguarda il rapporto dialetto lingua nelle altre opere, rari tocchi dialettali sono rintracciabili nei Bozzatti veneziani, si fanno poi più frequenti nel Novelliere, in Angelo di bontà e nel Conte Pecoraio. Nievo stesso in una lettera del 27 novembre del 1856riconosce l'importanza dell'uso di modi dialettali "innestati, nel dialogo sovratutto, per meglio ritrarre l'impronta de' costumi e de' tempi". Tipica della produzione neviana (e presente anche nelle Confessioni) sembra essere anche l'ibridazione delle tonalità del serio e del comico, presente, secondo Olivieri122, soprattutto dopo il 1857 e ottenuta attraverso il ricorso a una forte commistione di scritture e di generi e all' affacciarsi di una vena umoristica e satirica nella sua produzione, sul modello delle Operette Morali di Leopardi, di Rovani, Giusti e Sterne. 6.3 LINGUA E STILE NE LE CONFESSIONI In linea di massima la lingua delle Confessioni è quella del narratore che lascia talora emergere la voce dei personaggi, la cui lingua è poco differenziata: unica eccezione parziale è la Pisana. Tuttavia, se si presta più attenzione, ci si può accorgere che anche Lucilio presenta una voce individuale: massimo di elevazione oratoria e di gonfiezza, assenza di dialettalismi. Il diario di Martino poi, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare dato il basso livello sociale e la scarsa cultura del personaggio, è contrassegnato da tratti letterari e toscanismi. La dialettalità neviana infatti è pervasiva e in larga parte spontanea, per cui non è usata per caratterizzare (diastraticamente) i personaggi. Si può insomma dire che il romanzo di Nievo accoglie alcuni elementi di polifonia, senza tuttavia arrivare a essere un testo pienamente polifonico come le opere di Dickens o Dostojevskij. La lingua è soprattutto quella del narratore, Carlino, uomo vecchio e di mezza cultura, profondamente legato a Fratta e Venezia, luoghi dell'infanzia e della giovinezza. Gli si addicono dunque sia forme letterarie tradizionali e anche un po' desuete sia dialettalismi, che hanno il sapore di autobiografismi: "fin dalle sue prime opere Nievo è uomo della libertà linguistica"123 e la scelta del narratore Carlino gli ha permesso di sguazzare in questa libertà. La lingua delle Confessioni può essere letta alla luce di due binomi polarizzati: toscanismi/forestierismi e soprattutto dialettalismi/aulicismi124. Sui toscanismi e sulla loro doppia valenza, sia di registro comico sia di lingua letteraria (e manzoniana) si è già detto. I forestierismi, com'è naturale per ragioni storiche, sono in particolare francesismi, legati soprattutto al lessico della vita sociale e della moda. Il polo di maggiore interesse, come s'è già visto per le novelle mantovane, è certamente quello dialetto/lingua letteraria, che investe sia il lessico sia le strutture. L'importanza della componente dialettale nella lingua delle Confessioni fu intravista già da Pasolini che la definì "così idealmente grondante di dialettismi della Bassa friulana incivilita ai margini di Venezia"125. Sono ascrivibili al campo "basso" del dialetto fenomeni come: lo scempiamento (formagio), la palatalizzazione (oglio), il metaplasmo (pesco "pesca", suo "loro"), il ci ridondante, il condizionale in -essimo, gli ipercorrettismi, l'uso del rafforzativo del verbo la/ le (toscano ma anche lombardo) Dal punto di vista del lessico si danno sia termini frequenti e comuni sia dialiettalismi più insoliti riconducibili a lessico familiare dell'autore come farla tenere "far invidia", tirar giù a campane doppie "far qualcosa sbrigativamente". Cito, a titolo di esempio, alcuni termini: venetismi (viscere mie presente anche in Goldoni e nell'Ortis di Foscolo, raschiata "sgridata", cantera "armadio"); venetismi - friulanismi (mescolo "mestolo", da senno "davvero"); friulanismi (ninino "carino"); venetismi - friulanismi - lombardismi (da banda "da parte" anche toscano126). Alcune voci dialettali, in particolare venete, hanno carattere sostanziale e non esornativo: sono voci di colore locale e temporale come Avogadore, bulo "bravo", calle, calletta, campo, Canalazzo "Canal Grande", cernide "milizia", che hanno intento evocativo ed allusivo, sottolinea la venezianità del personaggio - narratore e del mondo messo in scena A volte la voce dialettale è necessaria altre volte si alterna con l'italiana geosinonima, come, ad esempio, pergola - loggia - poggiuolo. Questa attitudine può forse essere spiegata con il gusto stilistico della variazione unito alla sprezzatura, caratteristiche proprie di Nievo. In generale il patrimonio dialettale usato in modo diretto e non riflesso e ciò è dimostrato bassa frequenza di formule metalinguistiche. Sulle quattro componenti dialettali più volte ricordate evidente è l'egemonia del veneziano, che Nievo considerava una lingua di alto prestigio con tradizione letteraria, a cui richiamarsi e Goldoni, in particolare, fu un fondamentale modello per la costruzione dei dialoghi. Sono riconducibili invece al campo letterario sia fenomeni di fonologia (foco, movere) sia di morfosintassi (ei, eglino, elleno, deggio) sia, soprattutto, di lessico: accagionare "accusare", buffo "soffio" (corretto da Manzoni proprio in soffio nella quarantana), incognito (corretto da Manzoni in sconosciuto), perdonanza (corretto da Manzoni in perdono). Rientrano in questo gruppo anche citazioni ed echi letterari ed in particolare clamanti leopardismi come "spazi interminati dell'etere". In generale, comunque, anche per la sua struttura narrativa, il testo presenta una tinta fortemente conversativa. Abbondano infatti fenomeni del parlato sia nel dialogato sia nel narrato: battute amebee, micro-escalamazioni, avverbi e simili in funzione fatica, evidenza dei pronomi personali, frasi ellittiche, geminationes enfatiche o espressive, anafore, insistenza sui verba dicendi, avverbi responsivi, puntini sospensivi, forme introduttive o connettive a basso valore semantico (infine, dunque, cioè, appunto), frasi nominali, lessemi colloquiali-affettivi (carino), interrogazioni sospese, autointerrogazioni, inversioni e segmentazioni, e ad inizio di frase, formule di conclusione come "ecco come sta la cosa", verbi sottointesi, proverbi. In realtà più che parlato si potrebbe parlare di effetti teatrali e ribadire l'importanza del modello goldoniano. Si può, in conclusione, efficacemente riassumere con Mengaldo: "i fiorentinismi sono una componente marginale del plurilinguismo del romanzo e tendono a un'espressività anche plebea estranea a Manzoni; gli aulicismi sono imbarcati con tranquilla immediatezza e lo stesso avviene, all'opposto, per i settentrionalismi. La sintassi è varie ma si abbassa facilmente al discorsivo, alla linearità e alla sprezzatura del parlato"127. Bibliografia Edizioni critiche -NIEVO, Ippolito, Le confessioni d'un Italiano, a c. di Simone Casini, Guanda Fondazione Bembo, Parma 1999, 2 voll. -ID., Le confessioni d'un Italiano, a c. di M. Gorra, Mondadori, Milano 1981 -ID., Opere scelte, a c. di Sergio Romagnoli, Ricciardi, Milano - Napoli 1952 -ID., Il novelliere campagnuolo e altri racconti, a c. di Iginio De Luca, Einaudi, Torino 1956 -ID., Opere Complete, a c. di M. Gorra, Mondadori, Milano 1970-1981, 2 voll. Bibliografia critica -AA.VV., Ippolito Nievo e il Mantovano: atti del Convegno nazionale a cura di Gabriele Grimaldi, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Venezia, Marsilio, 2001 -AA.VV., Ippolito Nievo tra letteratura e storia : atti della Giornata di studi in memoria di Sergio Romagnoli, Firenze, 14 novembre 2002, a cura di Simone Casini, Enrico Ghidetti e Roberta Turchi, Roma : Bulzoni, 2004 -AA.VV., Atti del Convegno di Udine, 24-25 maggio 2005, Esedra, 2006 -BALDUINO, Armando, Le Confessioni d'un Italiano, in Storia letteraria d'Italia - l'Ottocento, a c. di A. Balduino, Piccin - F. Vallardi, Padova - Milano 1990-7, pp. 1453- 65 -DI BENEDETTO, Arnaldo, Una lingua non mimetica. Sulle Confessioni di un italiano in Ippolito Nievo. Atti del covegno di Udine del 24-25 marzo 2005, a c. di A. Daniele, Esedra editrice, Padova 2006, pp. 71-80 -COLUMMI CAMERINO, Marinella, Narratori delle campagne: voci del Mantovano nel Novelliere in Nievo e il Mantovano. Atti del convegno nazionale, a c. di G. Grimaldi, Marsilio, Venezia 2001, pp. 407-22 -GORRA, Marcella, Nievo fra noi, La nuova Italia, Firenze 1970 -MAFFEI, Giovanni, Nievo e la dialettica: Gioberti in Nievo in Ippolito Nievo tra letteratura e storia. Atti della giornata di studi in memoria di Sergio Romagnoli, Firenze 14 novembre 2002, a c. di S. Casini, E. Ghidetti, R. Turchi, Bulzoni, Roma 2004, pp. 75-116 -MENGALDO, Pier Vincenzo, L'epistolario di Nievo: un'analisi linguistica, Il Mulino, Bologna 1987 -ID., Appunti di lettura sulle "Confessioni" di Nievo in "Rivista di letteratura italiana", a. II (1994), n.3, pp. 465-518 -ID., Colori linguistici nelle Confessioni di Nievo, Accademia della Crusca, Firenze 1999 -ID., Storia e formazione delle confessioni, in Il Romanzo, vol V Lezioni, a cura di Franco Moretti, Mengaldo, Ernesto Franco, Torino, Einaudi, 2003 -NOZZOLI, Anna, Immagini di Nievo nel Novecento, Mucchi, Modena 1995 -OLIVIERI, Ugo Maria, Narrare avanti il reale: "Le Confessioni di un italiano" e la forma-romanzo nell'Ottocento, Franco Angeli, Milano, 1990 -ID., L'idillio interrotto : forma-romanzo e generi intercalari in Ippolito Nievo, Milano : F. Angeli, 2002 -TESTA, Enrico, Lo stile semplice, Einaudi, Torino 1997 -ID., Nella stalla di Carlone. Lingua e tecnica narrativa nelle novelle mantovane di Nievo in Nievo e il Mantovano. Atti del covegno nazionale, a c. di G. Grimaldi, Marsilio, Venezia 2001, pp. 305-320 Strumenti linguistici -MARAZZINI, Claudio, La lingua italiana. Profilo storico, Il Mulino, Bologna 2002, p. 421 -SERIANNI, Luca, Storia della lingua italiana - Il primo Ottocento, Il Mulino, Bologna 1989 -ID., Storia della lingua italiana - Il secondo Ottocento, Il Mulino, Bologna 1990. FEDERICO DE ROBERTO E I VICERE' Relazione di Serena Giglio, Giulia De Dominicis, Valentina Fassi, Davide Podavini, Francesca Scuvera. Federico de Roberto davanti al "fallimento" del Risorgimento Contesto storico L'Italia a metà Ottocento comprendeva sette stati: regno di Sardegna, Regno delle due Sicilie, Stato pontificio, Regno Lombardo-Veneto, Granducato di Toscana e i ducati di Parma, Reggio, Piacenza e Modena. Il processo di unificazione nazionale (1859-1861) poté realizzarsi grazie alla concomitanza di alcuni fattori. Napoleone III era desideroso di rompere la politica di equilibrio internazionale. Nel 1853 lo zar Nicola I attaccò l'impero turco per espandersi nei Balcani. La Francia e l'Inghilterra reagirono con la guerra di Crimea. Gli Stati italiani, in crisi,si ritrovarono in ritardo socialmente ed economicamente rispetto al resto d'Europa, dilaniati da scontri tra ceti e classi sociali e con un'economia in gran parte pre-capitalistica. La breve stagione delle riforme, durante la quale i sovrani italiani concessero gli statuti, si concluse con le rivoluzioni del 1848, accolte dall'insurrezione di diverse città, in particolare di Venezia e Milano. Con l'intervento di Carlo Alberto di Savoia, che dichiarò guerra all'Austria, iniziò la prima guerra d'indipendenza, divisa nelle fasi federalista (in cui i piemontesi erano affiancati da Pio IX, Leopoldo di Toscana e Ferdinando re delle Due Sicilie) e regio-sabauda (dopo il ritiro degli alleati). Sconfitto Carlo Alberto (Armistizio di Salasco, 1848), l'iniziativa passò ai democratici, con la proclamazione delle repubbliche di Toscana, Venezia e Roma. Nel 1849 Carlo Alberto attaccò nuovamente l'Austria, ma, dopo essere stato sconfitto a Novara, abdicò a favore del figlio Vittorio Emanuele II. Cadute le repubbliche, tutte le costituzioni (tranne lo Statuto albertino) furono revocate. Il movimento democratico nazionale si divise dopo il 1848-49. Mazzini era fautore di una rivoluzione unitaria repubblicana e democratica. Gioberti, esponente del neoguelfismo, era fautore di una confederazione di Stati italiani sotto la presidenza del papa; C. Balbo e M. d'Azeglio sostenevano il ruolo di guida del Piemonte sabaudo; favorevole a riforme graduali si era mostrato anche C. Cattaneo, che puntava però a una federazione italiana di repubbliche autonome. Nel 1857 fu costituita la società nazionale guidata da Giuseppe Farina, disposta a combattere al fianco di Cavour e di cui faceva parte Garibaldi. Nel 1858 vennero siglati gli accordi di Plombières tra Cavour e Napoleone III (previsti un regno dell'Alta Italia sotto la casa sabauda, un regno dell'Italia centrale sotto Napoleone III, un regno meridionale affidato a Luciano Murat, con il Papa che avrebbe conservato la sovranità su Roma). Nell'aprile 1859 iniziò la II guerra d'indipendenza tra il Piemonte, alleato con i francesi, e l'Austria. Vi furono insurrezioni patriottiche in Emilia e Toscana che preparavano l'annessione al Piemonte. La forza del Movimento nazionale italiano pose fine alle mire espansionistiche francesi che nel luglio del 1859 firmarono la pace (Villafranca) con gli austriaci costretti a cedere la Lombardia alla Francia che poi l'avrebbe rigirata al Piemonte. Cavour non voleva la firma dell'accordo ma il proseguimento della guerra, Vittorio Emanuele II lo ratificò comunque e Cavour si dimise da primo ministro. Nel 1860 Cavour tornò alla guida del Piemonte e cedette a Napoleone III Nizza e Savoia in cambio dell'annessione al Regno di Sardegna della Toscana e dell'Emilia (attraverso plebisciti). Nel maggio 1860 Garibaldi e altri capi dei cacciatori delle Alpi assieme ad alcuni mazziniani partirono da Quarto verso la Sicilia. Garibaldi conquistò l'Italia del Sud. Cavour mandò La Farina da Garibaldi per convincerlo su posizioni moderate. Farina fu subito espulso da Garibaldi contrario ad una annessione del Sud al Regno di Sardegna. L'esercito francese fu mandato a presidio del Lazio, quello piemontese dell'Umbria e delle Marche. Garibaldi chiese al re le dimissioni di Cavour ma Vittorio Emanuele non accettò. La spedizione dei mille si concluse il 26 Ottobre 1860 con l'incontro presso Teano probabilmente tra Garibaldi e il re. L'ultima fase del processo unitario sarà guidata da Cavour e dal re. Nel 1861 ci furono le elezioni del primo Parlamento. Vittorio Emanuele II divenne primo re d'Italia e gli atti del primo parlamento sono segnati come VII legislatura poiché mantennero la numerazione piemontese. L'unità d'Italia fu voluta ed ottenuta soprattutto da élites aristocratiche e borghesi e le masse contadine e cattoliche ne rimasero fuori. Il modo in cui nacque lo stato italiano influenzò la sua organizzazione; si parla di una vera e propria piemontesizzazione. Dal 1861 al 1865 l'ordinamento giuridico piemontese divenne l'ordinamento italiano e il sistema politico amministrativo fu fortemente accentrato. Cavour voleva il decentramento e l'autonomia di tipo britannico in opposizione a quello accentrato francese. Venne nominato Farini come luogotenente generale del mezzogiorno col compito di eliminare le amministrazioni garibaldine collaborando con gli ex-borbonici e gli autonomisti moderati. Ottenne l'appoggio dell'alta borghesia e dell'aristocrazia non borbonica, ma al contempo la chiusura della piccola borghesia e dei garibaldini democratici. Il consiglio di luogotenenza (una specie di governo del mezzogiorno) fu composto da intellettuali piemontesizzati che promossero una politica d'accentramento. La luogotenenza Farini fallì per la mancanza di una solida base politica. La classe dirigente liberale e moderata che appoggiava Cavour è definita destra storica perché utilizzò strumenti dirigistici talvolta autoritari. Venne adottato un sistema accentrato visti i gravi problemi meridionali. Nel 1865 il parlamento approvò le leggi fondamentali per l'unione politico-amministrativa: una legge comunale e provinciale, la legge sulla sicurezza pubblica, il codice civile e di procedura civile, il codice di commercio,una legge sulle opere pubbliche e sul contenzioso amministrativo. Lo stato divenne di tipo francese e prefettizio. V'era oggettivamente una grossa distanza tra paese legale e paese reale. Il sistema italiano divenne liberale e censitario. Le cariche di governo spettarono ad una ristretta élite costituita dall'aristocrazia e dalla borghesia proprietaria. Avevano diritto di voto i cittadini maschi di almeno 25 anni che sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno 40 lire di imposte dirette l'anno (ossia 1,9% della popolazione, percentuale solo leggermente inferiore agli altri paesi europei). Elettori ed eletti erano dunque rappresentanti di una classe politica omogenea dotata di grande potere. La destra storica non era un vero e proprio partito in senso moderno quanto un'unione di comitati elettorali incentrati su notabili attorno ai quali si riunivano raggruppamenti regionali. Aveva due componenti, quella piemontese (La Marmora, Sella, Lanza) e quella moderata proveniente da altre regioni(Farini, Minghetti, Ricasoli) portatrici di ideali come probità, idealismo nazionale, rigore e liberali nella situazione con la chiesa. L'unità si sarebbe compiuta con l'annessione di Venezia in seguito alla terza guerra d'indipendenza nel1866 e di Roma nel1870; le città di Trento e Trieste sarebbero rimaste sotto l'Austria fino al 1918. Gli intellettuali dell'epoca furono tra i maggiori portavoce della forte condizione di disomogeneità in cui si trovò questa nuova Italia. Il lentissimo processo di integrazione, soprattutto tra nord e sud, era determinato dall'isolamento geografico e dalla mancanza di vie di comunicazione, dall'assenza di un mercato nazionale, dalla mancanza di una lingua comune (fino al 1880 solo il 2-4% parlava italiano), dal paesaggio e dal clima differenti, dalle differenze economiche tra Nord e Sud e più in generale dalla mancanza di una vera e propria società italiana (a proposito di ciò D'Azeglio disse: "fatta l'Italia bisogna fare gli italiani"). Biografia dell'autore Federico De Roberto nacque a Napoli il 16 gennaio 1861 nella casa paterna di via Riviera di Chiaia 287. La madre, Marianna Asmundo, di Trapani, aveva sposato a Catania, due anni prima, il 10 aprile 1859, un ufficiale napoletano del Real Corpo dello Stato Maggiore, 15 anni più anziano, anch'egli di nome Federico. I due si erano conosciuti a Napoli, essendo il militare un comandante dell'ottavo battaglione Cacciatori di Catania, e si trasferirono definitivamente in Sicilia dopo pochi anni, quando De Roberto padre otterrà l'incarico di comandante del castello-fortezza di Milazzo. Nel 1863 nacque il fratello Luigi che sarebbe morto prematuramente a 15 anni, pochi mesi dopo la morte della sorella Maria, nata a Matera nel 1864; ntrambi rimasti vittime di un'epidemia infettiva. Nel 1871 nacque il fratello Diego e il 25 agosto 1873 il padre perse la vita a Piacenza dopo una lunga agonia seguita a un oscuro incidente ferroviario in cui rimase coinvolto. Nel 1874 si trasferì con la madre e con il fratello a Catania, in Via Montesano e fu ammesso dalla Regia Scuola Tecnica di Catania "Carlo Gemellaro" alla Sezione fisico-matematica, da cui si licenziò geometra il 25 luglio 1879. Già in quegli anni maturò la sua passione per gli studi classici, cui si dedicò con assiduità per proprio conto, e si delineò la sua attenzione al giornalismo, in cui aveva esordito quindicenne, il 15 ottobre del 1876, con la cronaca sull'Illustrazione italiana della traslazione nella cattedrale di Catania delle ceneri di Vincenzo Bellini, morto a Parigi nel 1835. Nel 1879, iscritto alla Facoltà di Scienze fisiche matematiche e naturali dell'ateneo catanese, seguì distrattamente gli studi che abbandonerà al terzo anno di corso. Le condizioni economiche della famiglia, nonostante la morte del padre, si mantennero dignitose e consentirono a Federico di dedicarsi agli studi prediletti e all'attività giornalistica, nella quale dapprima si occupò di argomenti di natura locale per poi allargare i suoi interessi con la collaborazione (1879-80) a più autorevoli riviste: dalla "Rassegna settimanale di politica, scienze, lettere ed arti di Roma" alla "Rivista europea" di Firenze all'"Esploratore. Giornale di viaggi e geografia commerciale" di Milano. A partire dal 1880 collaborò col quotidiano romano "Il Fanfulla", firmandosi con vari pseudonimi (Hamlet, Cardenio e altri), quindi fondò e partecipò alla direzione del "Don Chisciotte" (1881-83) e contemporaneamente lavorò come consulente editoriale per il catanese Giannotta che gli affidò la direzione della collana letteraria "I semprevivi". Nel 1881 prese parte alla polemica fra Rapisardi e Carducci pubblicando il volumetto "Rapisardi-Carducci - Polemica". Nel 1883 è la volta di Arabeschi, scritti critici già pubblicati sul "Don Chisciotte" e sul palermitano "Lo Statuto". In questa serie di saggi pur prendendo le mosse dall'insegnamento di Capuana, il giovane De Roberto mostrò autonomia e ansia di rinnovamento, distanziandosi da Zola e riprendendo piuttosto Flaubert e Maupassant. Nello stesso anno mandò a Capuana, allora direttore del "Fanfulla della domenica", una novella che non venne pubblicata. Tentò in seguito, senza successo, di farsi pubblicare da Treves le sue prime novelle che andranno poi a formare il volume verista La Sorte, uscito nel 1887 per l'editore Giannotta. Le novelle, recensite positivamente da Capuana che ne elogiò "la fermezza della mano, la precisione del tocco, la giusta misura", passano in rassegna crudamente personaggi siciliani d'ogni classe sociale, ma già denotano la predilezione che avrà in seguito De Roberto nel descrivere la classe nobiliare decadente dell'epoca. Nello stesso anno, ma con data "maggio 1886", pubblicò la plaquette Encelado continuando una collaborazione con il "Fanfulla della domenica" che sarebbe durata fino al 1890. Grazie al giornalismo riuscì ad entrare in contatto con Verga e Capuana; l'amicizia con questi si intensificò a partire dal 1886, incidendo profondamente su De Roberto, considerato loro discepolo, tanto dal punto di vista umano che artistico. Federico tuttavia seppe anche distaccarsi dai suoi maestri rinnovando le teorie veriste, ormai in crisi a fine secolo, di fronte al nuovo clima culturale italiano ed europeo. Nel biennio 1887-88 andò pubblicando sul "Fanfulla della Domenica" e sul "Giornale di Sicilia" i racconti che entreranno a far parte, l'anno successivo, della raccolta Documenti umani. Con essa De Roberto si allontanò da un taglio esclusivamente verista del racconto per tentare una commistione con le cosiddette teorie 'idealiste', come annota l'autore stesso nella polemica e importante lettera-prefazione all'editore Emilio Treves. La silloge raccoglie testi in cui predomina un'atmosfera d'introspezione, con particolare rilievo ai fattori psicologici, come insegnava Paul Bourget, cui è fatto esplicito riferimento; e subito l'amico-maestro Verga manifestò la sua perplessità, esortando il giovane autore a tornare allo stile primigenio e mettendolo in guardia contro i "travestimenti idealistici". Sempre in quegli anni, collaborò anche a "La Scena Illustrata"; nel 1889 pubblicò il suo primo romanzo, Ermanno Raeli per l'editore Galli di C. Chiesa e F. Guindani (Milano). In una lettera ad una rivista l'autore assicura di aver consegnato il manoscritto all'editore nel febbraio di quell'anno, prima cioè che apparisse Le disciple di Bourget, da cui Enrico Panzacchi, in una recensione, lo aveva fatto derivare. Scritto, infatti, nell'87, il primo romanzo di De Roberto rispecchia il clima intimistico e psicologistico di Documenti umani (di cui doveva far parte), con in più qualche evidente elemento autobiografico. Le critiche, indurranno lo scrittore molti anni dopo, nel 1923, a una riedizione del romanzo, che uscirà presso Mondadori, dopo aver subito un'approfondita revisione stilistica e con l'integrazione di una lunga appendice autointerpretativa, in cui viene anche proposta una diversa conclusione della storia. Cominciò così un fervido periodo creativo e un apprendistato artistico perfezionato sulle pagine dei numerosi giornali cui collabora: dal 1889 su "Lettere e arti", "La Letteratura" e "La Gazzetta letteraria"; dal 1890 su "Vita Nuova", "Intermezzo", "Vita intima", "Gazzetta d'Arte" e "Nuova Antologia". Sono del 1890 due raccolte di racconti assai diverse tra loro: Processi verbali, di nuovo di stampo veristico ("nuda e impersonale trascrizione di piccole commedie e di piccoli drammi colti sul vivo" - secondo la testimonianza dell'autore stesso), ma con una "potenza creativa" che a Brancati apparirà degna dei più grandi maestri russi, e L'albero della scienza, in cui invece prevale l'interesse per una narrativa psicologica e -come avverte la prefazione- "si discorre di qualche caso di coscienza sentimentale" e "si presenta qualche problema dell'amore", attribuendo "la maggior importanza al mondo interiore dell'anima". Nella primavera del '91, a Palermo conobbe, grazie all'amico letterato Ferdinando Di Giorgi, il francese Paul Bourget di cui aveva tradotto alcune poesie. Iniziò in questo periodo la 'fuga' dal limitato ambiente catanese, verso i più grandi centri del 'continente' dove coltivò amicizie letterarie. A fine novembre del '90, Federico andò a Milano e prense alloggio in Piazza Duomo 5, proprio sotto l'appartamento di Verga. I soggiorni milanesi piuttosto frequenti e talora prolungati gli consentirono di stringere importanti amicizie letterarie: oltre a Verga e Capuana, incontrava abitualmente al "Biffi" e al "Cova" Camerana, Giacosa, Rovetta, Pozza, Praga, Oliva, Beltrami, Boito, Gualdo, Albertini, e grazie a quest'ultimo, prima redattore e poi direttore del Corriere della Sera", intraprenderà - tra il 1896 e il 1910 - una collaborazione saltuaria, ma notevole, col più prestigioso quotidiano italiano (su cui pubblicherà articoli di carattere prevalentemente letterario, ma anche storico e sociale). In gennaio, d'intesa con l'amico Ferdinando Di Giorgi, avvocato con velleità di scrittore, escì un fascicolo speciale della "Gazzetta d'arte", in cui De Roberto, oltre a tradurre sette poesie di Bourget, che confluiranno, in parte, nell'appendice alla edizione dell'Ermanno Raeli del 1923, introdusse, per scherzo, quindici aforismi propri tra quelli in appendice alla Physiologie de l'amour moderne, come omaggio all'autore francese tanto stimato. Nel mentre continuò la collaborazione a varie riviste, sia come critico che come narratore: "La Tavola rotonda", "La Domenica Letteraria", "Il Capitan cortese", "Roma di Roma" ed altre ancora. Nel 1891 pubblicò il romanzo L'Illusione per gli editori Galli-Chiesa-Guindani modellando la fisionomia della protagonista, Teresa Uzeda, su alcuni tratti della marchesa catanese Giovanna di Santelìa Calì Paternò Castello, da lui amata tra il novembre 1890 e il maggio '91. Appare evidente l'influsso di Flaubert, alla cui eroina Emma è subito paragonata la protagonista Teresa. "L'Illusione" - che susciterà molte discussioni e anche giudizi negativi, tra cui uno famoso di Croce nel '39 - è il primo romanzo della presunta trilogia degli Uzeda. Lo scarso interesse dei critici deluse molto l'autore, che nel frattempo pensò di scrivere un romanzo, come pendant dell'Illusione, dal titolo Realtà. Ma il progetto tramontò quasi subito. Nel 1892 apparve a Napoli, per la casa editrice Pierro, La morte dell'amore con cui approfondì uno dei suoi temi più ricorrenti, vale a dire gli studi di donna e l'analisi del sentimento. Fra il marzo e l'agosto del '93 L'Illusione è ripresentata a puntate sulle appendici della "Gazzetta del Popolo" di Torino. Lavorò nel mentre accanitamente alla laboriosa ed estenuante stesura dei Vicerè, affresco grandioso che narra, sullo sfondo delle vicende storiche risorgimentali e post-risorgimentali, dal 1855 al 1882, le vicende della famiglia Uzeda di Francalanza, di origine spagnola, soprannominata i Viceré a ricordo degli antenati che ebbero quella carica durante il dominio spagnolo. Il romanzo, pubblicato solo nel 1894 presso gli editori Galli-Chiesa-Guindani, fu definito da Verga "machine poderosa" e mostra una visione pessimistica dell'Italia pre e post unitaria sottolineandone la corruzione, il disfacimento e la patologica follia. La stesura impegnativa dei Vicerè aggravò i disturbi nervosi già latenti nello scrittore e da ora in poi le condizioni della sua salute subiranno un lento ma progressivo peggioramento, cui non furono estranee ragioni familiari, in particolare l'attaccamento morboso alla figura materna, che indusse in Federico sensi di colpa per la sua frequente lontananza da Catania. Tuttavia la principale causa del malessere è da ricercarsi, verosimilmente, nella mole di lavoro che andò affrontando dal momento che, contemporaneamente alla composizione del suo capolavoro, cominciò la stesura dell'Imperio,portò a termine il ponderoso trattato L'amore. Fisiologia Psicologia Morale, che sarebbe uscito nel 1895, e scrisse degli apologhi amorosi, a corredo delle tesi formulate nello studio scientifico e che pubblicherà a parte nel 1898, col titolo Gli Amori. Nel 1894 Ojetti incontrò a Milano De Roberto, che gli rilasciò un'intervista, raccolta nel volume Alla ricerca dei letterati (Milano, 1895). Da questa intervista è possibile fare un bilancio del lavoro, dei progetti e delle idee dell'autore fino a quel momento. Si accenna per la prima volta all'Imperio, si discute di problemi artistici e si dà notizia di nuovi progetti letterari. Sono proprio le trasferte a Milano, a Firenze e a Napoli che consentirono all'autore di ampliare i propri orizzonti culturali e umani. Proprio a Milano intraprese, dopo un'effimera parentesi amorosa con una dama di nome Felicina Rossi, una lunga relazione amorosa con Renata Ribera, moglie di un affermato avvocato milanese. Il legame fra i due durerà fino al 1903, contrastato dalla gelosia del marito di lei e, per altri versi, dalle intromissioni della madre di lui, che sempre più spesso lo richiamava a Catania. Ma i problemi di ordine sentimentale, che senza dubbio hanno influito sulla sua nevrosi, definita dai medici "uno dei più rari ed espressivi casi dell'isterismo mascolino", non produssero una dismissione dell'impegno letterario, che continuò con costanza, seppure le risposte della critica non sempre corrispondessero alle attese dello scrittore. Messo da parte L'Imperio dopo i primi cinque capitoli, fra il novembre del '96 e il gennaio '97 apparve il romanzo Spasimo, una sorta di giallo psicologico con un predominante tono elucubrativo, sulle appendici del "Corriere della sera " e fu riproposto poi in volume nel 1897 da Galli. Il testo, in cui prevale il dialogato, subirà poi una trasposizione teatrale con il titolo La tormenta. Una pagina della storia dell'amore, pubblicato da Treves nel 1898, Gli amori sempre nel '98 da Galli s e Come si ama, edito per Roux e Viarengo a Torino nel 1900 saranno opere che lo stesso De Roberto definirà "contributi ad una storia e ad una geografia sessuale". Si tratta di opere con pretese scientifiche, in cui sono analizzati i diversi aspetti della problematica erotica. Come nella restante pubblicistica scientifica del tempo, il tono è spesso antifemminista, vi si sente inoltre l'influsso di Stendhal, di Balzac e di Bourget. Sempre del '98 sono Una pagina della storia dell'amore e la monografia Leopardi, quest'ultima scritta per il centenario della nascita del recanatese, autore che De Roberto sentì particolarmente vicino e del cui pessimismo filosofico si ritrovano non poche tracce in tutta la sua opera. Nel '99 cominciò ad occuparsi di teatro, ricavando dalla sua novella Il Rosario, già pubblicata in Processi verbali, l'omonimo bozzetto scenico. Nel 1901 pubblicò il trattato di estetica L'Arte in cui si rintracciano spunti di notevole modernità. Il nuovo secolo vide un De Roberto sempre più prostrato dai suoi disturbi nervosi, di cui, dai soggiorni estivi di Zafferana Etnea, fece alla madre puntuali resoconti; intanto provvide ad una minuziosa revisione dei Viceré, che sicuramente non contribuì ad alleviargli la tensione. Questi furono gli anni catanesi del ritiro familiare, allietati dalla nascita della nipote Nennella, figlia del fratello Diego, che Federico allevò presso di sé come una figlia. In una lettera del 1909 Verga, parlando del fedele amico, a lui molto legato, fece cenno ad una "malattia intestinale" e si mostrò preoccupato per le "ripercussioni al morale" e del suo "angoscioso stato ipocondriaco". Si trattava, probabilmente, di una malattia psicosomatica che lo costrinse a diminuire l'attività intellettuale e a sottoporsi a diete ferree riducendolo in uno stato di abbandono complessivo che egli stesso definì "negazione della vita". Il male era quanto mai misterioso, inafferrabile, tanto che il malato ebbe a dire: "I sintomi sono tanto strani, tanto indefinibili, così poco esteriori, che se io dico di star male non mi credono". Il "male indefinibile" sembrò conoscere una pausa nel 1905, quando De Roberto si recò a Berna a farsi curare dal famoso dott. Dubois, uno psichiatra che teneva conto, per le sue cure, più delle forze "morali" che di quelle materiali dei pazienti. Il dottore Dubois, che fu il neurologo elvetico cui avrebbe voluto rivolgersi anche Proust, diagnosticò "una dispepsia d'origine psichica" e lo sollevò dalle strettoie estenuanti delle diete. Per quanto colpito positivamente da questa terapia (a tal punto che scriverà su incitamento di Boito un articolo sul Dubois), il giovamento fu lieve, come sappiamo dalla lettera all'amico Domenico Oliva del 17 novembre: "la cura miracolosa del dott. Dubois è stata tutta morale, e moralmente non ha prodotto [...] nessun risultato". De Roberto ammetterà presto il fallimento della cura e sarà ancora, negli anni successivi, vittima del suo "spirito sbalestrato", in condizioni di salute sempre precarie e dolorose, che lo porteranno ad una vita di isolamento e di emarginazione progressivi. Il soggiorno milanese rimase solo un ricordo alimentato da un fitto carteggio con gli amici scrittori e con l'ambiente giornalistico del "Corriere della Sera" dove proseguì l'impegno giornalistico non senza contrasti, per alcuni anni, ma che poi sarebbe andato affievolendosi fino a scomparire. De Roberto fece ancora progetti per un ritorno alla vita culturale di Milano e intanto lottò contro le forme risorgenti della malattia che gli impedirono di lavorare. Per ristorarsi e per villeggiare tornava spesso nella sua tenuta a Zafferana Etnea. Nella casa, dominata dalla figura incombente della madre, De Roberto visse la sua vita di studioso, fedele ai suoi orari e schiavo della malattie, con puntiglioso senso del dovere e della dignità del letterato bisognoso di remunerazioni pecuniarie. Dalle lettere scopriamo un De Roberto oculato amministratore, deluso a livello commerciale dagli insuccessi della sua opera letteraria e dai compensi del suo lavoro precario e snervante di giornalista. Il suo stato di abbandono si palesò anche nell'aspetto e nell'abbigliamento come segni di quell'emarginazione, subita e voluta insieme, a volte con compiacimenti masochistici, che caratterizzano il lungo periodo catanese dello scrittore e la sua condizione di disagio psichico e finanziario. E tuttavia, in tale stato di frustrazione e di scacco, De Roberto mantenne un suo riserbo, e conservò una sua coerenza di fondo. A differenza del venerato Verga che scelse la condizione di un superbo e sdegnoso anonimato, De Roberto volle per sé uno stile di dignitoso distacco, che gli permise di accettare cariche onorifiche, come quelle di sovraintendente alle Belle Arti e di bibliotecario onorario e di avere un ruolo presso le giovani generazioni di scrittori catanesi. Si dedicherà tra l'altro ad opere di carattere locale come Catania nel 1907, Randazzo e la valle dell'Alcantara nel 1909 e l'album illustrato Esposizione di Catania nel 1907. Intanto continuò ad assistere la madre sempre più inferma con inesausta devozione, solo a tratti interrotta da qualche tentativo di recuperare un poco di autonomia; tanto che nell'ottobre del 1908 le scrisse di avere intenzione di trattenersi a Roma, perché "lo stare insieme era divenuto causa di continui tormenti". I soggiorni romani gli offrirono l'opportunità di frequentare le aule parlamentari, accumulando materiali per il già iniziato romanzo L'Imperio, destinato però a rimanere incompiuto. Nella capitale frequentò la redazione del "Giornale d'Italia" frequentando qualche salotto letterario. Intrecciò una nuova relazione amorosa, meno tormentata della precedente, con Pia Vigada moglie di un professionista della capitale e amante dello scrittore fino al 1914. L'amore parve dare nuovo impulso alla sua vena scrittoria, sicché riuscì a pubblicare diverse novelle, tra cui nel 1909 Nora o le spie, il romanzo La messa di nozze, pubblicato nel 1911 insieme ai due racconti Un sogno e La bella morte. È anche il periodo delle ambizioni teatrali dello scrittore che tuttavia non gli procureranno grandi successi. L'adattamento nel 1913 della Messa di nozze (con il titolo La strada maestra) si rivelò una delusione tanto quanto La tormenta. Lo scrittore aveva sperato nell'aiuto di amici influenti come Praga, Lopez, Oliva, ma l'appoggio ricevuto fu minimo. Ancor meno interessanti Il cane della favola, Giustizia e i drammi Tutta la verità e La prova del fuoco. Dopo questa deludente stagione teatrale De Roberto si ritirò a Catania, sempre più isolato, vicino al venerato Verga, la cui Lupa avevano ridotto insieme a libretto per opera. Allo scoppio della guerra, De Roberto rimase nell'amata-odiata Catania in qualità di sovrintendente alle Belle Arti e bibliotecario onorario. Nel 1913 raccolse in volume molti suoi articoli intitolando la raccolta Le donne, i cavalier.., rivide e ristampò L'Albero della Scienza ricercando un sostanziale isolamento dall'ambiente intellettuale. Non era valso a dargli entusiasmo nemmeno l'elezione contro la sua volontà, nel 1910, a consigliere comunale per la lista del "Fascio Democratico delle Organizzazioni Politiche e Professionali Autonome"; difatti rifiuterà la carica. Dalla politica vera e propria De Roberto si tenne sempre lontano, col distacco tipico dell'intellettuale umbertino; neanche Crispi, a quanto si sa, lo coinvolse negli entusiasmi allora molto in voga, specie fra gli uomini di cultura siciliani. Nel dopoguerra De Roberto riprese, sempre da Catania, una più intensa attività, non solo giornalistica. Fra il '19 e il '23 uscirono su alcune riviste varie novelle di guerra, che l'autore solo in piccola parte raccoglie in volume (una di queste, La paura, sarà ripubblicata subito dopo la sua morte come inedita). Produsse un'inportante serie di scritti politici che raccoglierà nel dopoguerra nei due libri Al rombo del cannone (1919) e All'ombra dell'olivo (1920). Nel 1919 Martoglio mise in scena la traduzione in siciliano di Il rosario insieme alla traduzione in siciliano di Pirandello del Ciclope di Euripide e l'opera riscosse, questa volta, un buon successo. Sempre in questi primi anni Venti giunse ad esaurirsi la collaborazione al "Giornale d'Italia" ed iniziò quella al "Giornale di Sicilia". Nel 1920 uscì anche la modesta raccolta di racconti intitolata Ironie. Nel '21 uscì la seconda edizione del Leopardi (Treves editore), mentre nel '22 De Roberto scrisse l'ampia introduzione alle poesie di F. Guglielmino, Ciuri di strata. Come omaggio di ammiratore e scolaro devotissimo uscirono nel '22 i saggi sulla Duchessa di Leyra, su Storia d'una capinera e quello concernente L'esordio di G. Verga, saggi destinati a riviste e giornali quali "La Lettura" e "Il giornale di Sicilia". Altri saggi sullo stesso argomento continuarono ad apparire fino a poco dopo la morte di Verga, che gli lasciò parte delle sue carte, e all'insorgere della malattia della madre. Furono gli ultimi contributi per quella monografia dedicata al Maestro, a cui De Roberto di questi anni stava volgendo tutte le sue forze, sorretto da quello che egli sentiva come un "sacro dovere". Il 1923 fu l'anno della seconda edizione, riveduta con l'aggiunta di un avvertimento e di un'appendice, dell'Ermanno Raeli, questa volta per Mondadori. Nell'Avvertimento De Roberto rievoca con distacco i suoi esordi e prende posizione, sia pure velatamente, in favore del nuovo stile politico "forte" e realista. Nell'Appendice, all'eccesso di romanticismo della prima versione del suicidio del protagonista si contrappone un taglio quasi parodistico dell'evento, che però non appare più convincente, tanto che a tuttora il testo suscita non poche perplessità, quantunque non gli si possano negare sprazzi di modernità stilistica e tematica. E che De Roberto volesse con quell'appendice giocare un tiro a quella "critica saputa", che sovente lo aveva ignorato o male interpretato, appare chiaro da una lettera scritta in quell'occasione al Nalli: "... io ho detto in quell'appendice che "la psicologia" -cioè la materia dell'opera d'arte- "è una matematica". L'ho detto da burla, e tutta quella vera fine è (o voleva essere) una beffa sottile fatta alla critica saputa. Forse mi è riuscita troppo sottile, e perciò non è stata scoperta...". Le estenuanti cure dedicate alla madre, colpita da paralisi, fino alla morte che avvenne nel novembre del 1926, allontanarono sempre più lo scrittore da ogni attività letteraria e lo costrinsero a ridurre la propria attività a pochi contributi per il "Giornale dell'Isola" e per il "Giornale di Sicilia", dove uscirono ancora articoli che permettono, oggi, di ritrovare un De Roberto con curiosità europee (Renan, Stendhal, Nietzsche). Lo scrittore invecchiò circondato da pochi amici, tra cui il poeta Francesco Guglielmino cui confessò il desiderio di voler essere dimenticato. Pochi mesi dopo il decesso della madre, De Roberto morì il 26 luglio 1927, nella sua casa catanese di via Etnea 121. Nella penisola, solo "La fiera letteraria " tentò una rivalutazione e un rilancio dell'opera di De Roberto con alcuni articoli critici e reportages sullo stato dell'opera e dei manoscritti. La rivista pubblicò alcuni brani di opere inedite ed annunciò l'edizione dell'Imperio, che sarebbe uscita, in edizione molto approssimativa, nel '29 per la casa editrice Mondadori, senza incontrare alcun successo. La morte ebbe un'eco limitata a livello nazionale anche per la coincidenza con il decesso della più nota Matilde Serao. Ma in Sicilia, e soprattutto a Catania, fu l'occasione per lo sfoggio di un'esaltazione tipicamente isolana. E fu l'inizio di quel culto provinciale, fatto di memorialismo apologetico, a lungo estraneo ad ogni valutazione, o rivalutazione, critica, mentre già da alcuni anni il disinteresse dei critici era calato sulle pagine dello scrittore. Cenni di critica Renato Serra nelle sue Lettere del 1913 scrisse "(...) la sincerità di De Roberto non arriva ad essere originalità, e la sua fatica è più nobile e acuta che non veramente felice". Benedetto Croce nel 1939 asserì a proposito dei Viceré: " E' un'opera pesante, che non illumina l'intelletto come non fa mai battere il cuore (...)" ("Critica" e "La letteratura della nuova Italia"). Una stroncatura impietosa, senza via di fuga, schiacciante. Leonardo Sciascia, in un articolo apparso su "la Repubblica" nell'agosto del 1977 e intitolato Perché Croce aveva torto, esaltava le doti dell'autore de I Viceré condendo il suo commento con notazioni ironiche, ma scientemente calibrate: "(...) era difficile, nella scuola di allora, mandare al diavolo Croce e i crociati, la poesia e la non poesia, e leggersi I Vicerè come poi durante la guerra li lessi, pensando che tanto peggio per la poesia, se poesia non c'era (...). "Se ci fossero cinquanta pagine in meno", sospiravano coloro che amavano il libro ma non volevano mancare di rispetto a Croce. E perché avrebbero dovuto esserci cinquanta pagine in meno? E quali poi?". E a proposito dei Viceré scrisse ancora: "Tecnicamente è un romanzo ben fatto, senza ingorghi e dispersioni. Una tecnica così sicura; un tempo e un ritmo tanto vigilato e costante, danno ai personaggi una situazione - per dirla con una espressione di Ortega - di "democrazia ottica". SERENA GIGLIO I Viceré: aspetti di lingua e stile A una prima lettura de I Viceré si resta subito colpiti dalla vastità di escursioni tra diversi registri linguistici e aree semantiche. Da un'opera che ha per protagonista una famiglia aristocratica ci si aspetterebbe una lingua monotonale e uniforme: De Roberto capovolge questa aspettativa proponendo una miscela studiata di varianti diastratiche, diafasiche e diatopiche con frequenti incursioni nei linguaggi speciali, antichi e moderni. Come ha puntualizzato Vittorio Spinazzola, "I Viceré ci offrono uno straordinario quadro delle diverse alterazioni e modulazioni che la lingua nazionale assumeva nei vari strati sociali e gruppi e comunità di parlanti dell'Italia del secondo Ottocento; convinto dell'inesistenza di uno strumento espressivo universalmente valido, De Roberto non ha voluto seguire né la via additata dal Manzoni né quella personalissima sperimentata dal Verga nei Malavoglia, ed ha preferito che nel suo romanzo si scontrassero, pagina per pagina, l'italiano aulico e i modi di dire vernacoli, la moderna tecnica oratoria dei comizi elettorali e il linguaggio della narrativa patetica tardoromantica"1. La compresenza di piani distinti, se non addirittura opposti, è particolarmente evidente per quanto riguarda il lessico, dove espressioni come recere i cani [GDLI XV p. 633, voce dotta dal lat. reicere, con uso iperbolico significa "provare un fortissimo disgusto"], rovistolare, galloria [GDLI VI p.562, etimologia: incrocio di gallo con gloria, significa "esultanza manifestata con vivacità", "vanteria", "baldoria"], inimistà, legnetto (carrozza), speculava (studiava), noverare (contare), occhi lucenti come spiracoli, folla ragunata convivono anche all'interno di una stessa proposizione con termini e locuzioni come manetta di mangia a ufo, vuotapitali [GDLI XXI p. 1029, la citazione da I Viceré è l'unica letteraria per questa voce], squassaforche, minchione, far mangiare l'aglio, babbaccio, comarca [GDLI III p. 340, seconda accezione: uso dialettale per "riunione di persone", "cricca"; viene riportata proprio l'attestazione in De Roberto], ciarpe [GDLI III p. 114, nel senso figurato di "donna di malaffare"], sbertare [GDLI XVII p.667 "schernire", "deridere con sarcasmo"; il GRADIT (V p. 898) segnala questa voce come regionale], pecoreccio, bertone [GRADIT I p. 658, di basso uso, significa "cavallo con le orecchie mozze" e dunque, in senso figurato, "uomo che frequenta prostitute", "ruffiano"]. Questa prosa variopinta e poliedrica da una parte sembra sforzarsi di far parlare ciascun personaggio in modo verosimile e coerente, dall'altra connota il testo nel senso di una parodizzazione del personaggio stesso. Ne abbiamo due esempi lampanti già nelle prime pagine dell'opera: a cominciare da Don Blasco, che entra in scena e dal primo istante snocciola espressioni che diventeranno quasi un leitmotiv, come "Non facciamo pulcinellate. (...) E andate un poco a farvi friggere, tutti quanti!..."2; ma ancora più interessante è il secondo esempio, in cui il lavapiatti Don Cono Canalà legge alcune iscrizioni da lui stesso composte per il funerale di Donna Teresa Uzeda: "BENEFICENTE / COI DERELITTI / L'OBOLO DELLA CARITÀ / TI FIA RESO / CENTUPLICATO / CON L'ESPIATORIE PRECI. Don Cono declamava, a bassa voce, l'altra iscrizione al canonico Sortini che aveva pescato tra la folla: "Conciliar l'invenzione del concetto con la venustà della forma: difficoltà precipua dello stile epigrafico... L'obolo... centuplicato... non so se mi appongo... "3 e, più avanti, "Don Cono compitò: IN QUESTO TEMPO / OVE IL FRALE SI ACCOGLIE / DELLA BEATA UZEDA / CORROBORATE / FIENO LE PRECI / DALL'INTERCESSORA PARENTE. "Bellissimo! Bravo!... Bene l'intercessora..." esclamarono in coro"4; in entrambe queste due citazioni non si può fare a meno di notare la corrosione interna operata dal narratore, che appunto caratterizza il personaggio attraverso la sua stessa lingua fino al punto da lasciare in pasto ai lettori una caricatura in cui manifesta palesemente il proprio giudizio. Un giudizio pieno di sarcasmo che De Roberto allarga a gran parte della famiglia Uzeda, simbolo di un'aristocrazia priva di spessore, eppure al comando. L'aspetto che qui interessa è il fatto che per veicolare questa demistificazione della classe aristocratica l'autore non si espone mai in prima persona, ma sceglie la via della parodizzazione linguistica, si vedano i seguenti esempi: Donna Ferdinanda ama leggere dei brani del capitolo dedicato alla famiglia Uzeda nel Teatro genologico di Sicilia di Mugnòs: "quella enfatica e bolsa prosa siculo-spagnuola secentista era la sua lettura prediletta, l'unico pascolo della sua immaginazione; (...) "Chiaramente per tvtti gli Hifpani genologifti fi fcorge, coi fvoi felici fvucceffi e con le occafioni debbite, qvuale vna delle più antiche e fvblimi famiglie delli regni di Ualenza e d'Aragona la famiglia Vzeda, e per tutto è uolgato effer ella fiffamente cognominata dal nome, di vna fva terra detta la baronia di Vzeda, qvale alcanzò da qvei Re in ricompenfo dei fvoi fervigi et indi coi Trionfi della militia nel Svpremo Cielo delle glorie militari peruenne." Questo stile era d'una suprema eleganza, d'una straordinaria magnificenza per donna Ferdinanda, la quale leggeva effettivamente uolgato, peruenne"5. Don Eugenio legge una dissertazione di suo pugno sull'utilità di compiere degli scavi archeologici a Massa Annunziata: "C'erano espressioni di questo genere: "Quandocchesia nel 1669 tra le più terribili eruzioni la nostra vi cadendo annoverata... Dopoché appiacevolirono alquanto i tremuoti... A quale opera tuttosì in Pompei intentando si viene... Non mi si impunti in superbia alle conghietture azzardarmi...". Erano il frutto di riforme grammaticali da lui studiate. Perché apostrofare soltanto gli articoli, i pronomi e le particelle? Egli scriveva: "Il flagell'accuorav'i naturali... La lav'avanzavas'incontr'a quel borgo...". Per dar più scioltezza al discorso diceva: "Ne continuando" invece di "continuandone" ed anche "gli proporre" invece di "proporgli"... Don Cono soltanto gli dava retta, discutendo se solenne dovesse scriversi con una o due elle"6. Lo sguardo critico del narratore nei confronti dei membri dell'aristocrazia non è controbilanciato da un atteggiamento opposto nei confronti di chi appartiene a una classe inferiore: nessuno sembra salvarsi dal meccanismo della caricatura linguistica che mette alla berlina il personaggio: Benedetto Giulente presenta alla folla il futuro candidato per la Camera dei Deputati, il Duca d'Oragua: "Cittadini! Applaudite voi stessi.. applaudite i vostri reggitori... applaudite questi guerrieri fratelli che dolenti di non poter pugnare con noi, tutelarono i vostri focolai... applaudite questo insigne patrizio che alle glorie dell'avito blasone accoppia quelle del patriottismo più puro..."7. Pasqualino Riso racconta i retroscena della liaison tra Raimondo e donna Isabella Fersa: "Suo marito (di Matilde) non poteva pigliare un po' d'aria che lei non gli facesse una scenata: se andava al Glubbo a trovar gli amici, a far quattro passi, subito i sospetti, i pianti ed i rimproveri. E gli strepiti per la passeggiata alle Cassine? Il contino, che usciva a cavallo, ci trovava donna Isabella in carrozza e, naturale! Si fermava a salutarla; giusto in quel punto: ciaff-ciaff, chi spuntava? la carrozza della padrona!...O buona donna, se questo le dispiaceva, perché non se ne andava al giardino dei Popoli, che non è meno bello? ... E poi, con le bambine? con quel diavoletto della maggiore che capiva tante cose come una donna fatta? Le bambine avrebbe dovuto lasciarle alla Missa inglese che il contino aveva preso appunto per questo!"8. In tutti questi esempi si vede come l'autore stigmatizzi le peculiarità del modo di parlare dei suoi personaggi, che poi è anche un modo di essere; ciò gli offre l'occasione per muovere una celata critica a certe movenze del parlato e alle ragioni che vi stanno dietro, come è chiaro nel caso della ridondante e posticcia retorica di Benedetto o in quello di Pasqualino, che usa parole che non conosce storpiandole. In questo senso va letta la conclusione cui giunge Spinazzola quando dice che l'opera "assume l'aspetto di una sterminata tranche de vie, messa in scena non tanto da un autore quanto da un coordinatore che rifugge dall'affacciarsi in primo piano e preferisce affidare la recita all'eloquenza icastica dei personaggi, responsabilizzandoli al massimo"9. Anche se queste osservazioni riguardano l'intera opera sono valide per un gruppo in particolare di personaggi, più o meno quelli della più anziana generazione Uzeda, come don Blasco e donna Ferdinanda: sono le figure più semplici, mosse da un solo sentimento e il narratore ne trascrive in modo del tutto trasparente le espressioni, anche quando usa l'indiretto libero o il discorso rivissuto10. La seconda generazione Uzeda e Benedetto Giulente rientrano invece in una secondo gruppo di personaggi dal profilo caratteriale più complicato: con loro il narratore esce allo scoperto e interviene con formule esplicative ("la questione era che", "invece pensava che") a descrivere e interpretare i loro atteggiamenti, anche quelli di cui i personaggi non sono totalmente consapevoli. Queste tendenze si amplificano per quanto riguarda l'ultima categoria di personaggi, di cui fanno parte Consalvo e Teresa, più intelligenti e colti degli altri: la voce narrante mostra più distacco critico e paradossalmente, proprio nella miscela tra analisi psicologica e indiretto libero, lascia trapelare una maggiore immedesimazione nei loro percorsi mentali. E forse proprio in questa categoria possiamo inserire l'episodio capolavoro del romanzo dal punto di vista narrativo: l'esposizione del programma elettorale che Consalvo fa davanti a una folla sterminata. Il narratore è estremamente consapevole, presente e gestisce con studiata perizia la regia della scena, definita teatrale da tutto il dibattito critico seguito all'opera: il discorso di Consalvo segue attentamente tutte le regole della retorica classica gonfiandole con un fiume di immagini e di digressioni intervallate solo dalle parentesi in cui il narratore riporta le annotazioni degli stenografi, con evidente effetto comico per il lettore; e come contraltare alla solennità della scena, ecco il dettaglio in chiusura, la battuta dello studente annoiato che si fa riassumere il contenuto dai compagni. Per spiegare tale modalità non univoca della narrazione è opportuno fare almeno un riferimento alla riflessione teorica dell'autore. Come ha evidenziato Spinazzola11, De Roberto nelle opere iniziali si era mostrato legato al modello dell'arte realista e alle sue norme - "La scrupolosità nell'osservazione, la sincerità nell'impressione, l'impersonalità nell'esecuzione"12 - e di conseguenza aveva prediletto il mondo della gente più povera come oggetto della narrazione. Qualche anno dopo, sulla scia delle considerazioni che Maupassant condensò nella prefazione del Pierre et Jean (1888), De Roberto approda alla conclusione che il tentativo di restituire con il narrato una fotografia della realtà obbiettiva è impossibile, in quanto comunque la nostra percezione passa attraverso i sensi, che danno a ciascuno di noi un'impressione diversa: da queste considerazioni discende il suo parziale ritorno all'analisi psicologica, alla previsione di cosa potrebbero provare i personaggi di un'opera. E in quest'ottica si capisce meglio anche la scelta dell'ambiente aristocratico, in cui l'autocoscienza delle persone è più sviluppata. Solo alla luce di questa doppia radice - realismo e psicologismo - possiamo intendere l'espressione "romanzo di costume" con cui De Roberto volle definire I Viceré. In fondo il romanzo si propone come una formula di compromesso non solo dal punto di vista della modalità di narrazione, ma anche da quello della veste linguistica. In una conversazione con Ugo Ojetti del 1894 De Roberto dichiarò di voler superare la dicotomia tra la lingua aulica di Gabriele D'Annunzio e quella "viva e vivace" di Manzoni. Al tempo stesso l'autore sceglie di non fare ricorso sistematico al dialetto siciliano, perché in questo modo avrebbe precluso la comprensione dell'opera alla maggior parte dei lettori. Così arriva all'idea di una conciliazione tra lingua e dialetto, come scrive nel 1886: "sul canavaccio della lingua conduco il ricamo dialettale, arrischio qua e là un solecismo, capovolgo certi periodi, traduco qualche volta alla lettera, piglio di peso alcuni modi di dire e riferisco molti proverbii, pur di conseguire questo benedetto colore locale non solo nel dialogo, ma nella descrizione e nella narrazione ancora"13. Si prenda ad esempio il seguente brano della lettera che il servo Baldassarre scrive da Parigi: "So Eccellenza (Consalvo) sta bene e s'addiverte... Oggi abbiamo stato al Buà di Bologna, che ci era grande passeggio di carrozze e cavalli e signori e signore accavallo... (...) So Maistà (Francesco II) abbia parlato a So Eccellenza della Siggilia e dei signori sigiliani che abbia conosciuto in Napoli e in Pariggi. So Eccellenza ci ha baciato le mani, e So Maistà gli arregalato il suo ritratto, dicendoci che ci deve tornare un'altra volta, per appresentarlo a So Maistà la Reggina"14. L'effetto finale della scrittura derobertiana, nonostante tutti gli ingredienti, tutte le carte che l'autore mette in gioco, non è quello di una polifonia. I diversi usi linguistici e stilistici convergono verso un unico scopo, la rappresentazione di un mondo che è dominato dal solo punto di vista dell'egoismo e che dunque può essere guardato soltanto con occhi pessimisti. Silvia Dai Prà ha evidenziato questa tendenza parlando di un "pluristilismo "centripeto", le cui diverse parti contribuiscono a creare il tono medio del romanzo(...). Ogni stile, ogni linguaggio viene piegato verso la medesima conclusione: verso una deformazione grottesca ed espressionista che rappresenta ogni pensiero ed attività umana con un'unica tinta fosca"15. Nel mondo de I Viceré non c'è spazio né per la Provvidenza manzoniana, né per la pietas verghiana, ma solo per la realizzazione di un'immagine corrosiva, grottesca e demistificatrice della Sicilia del tempo. GIULIA DE DOMINICIS Il sistema dei personaggi nei Viceré I Viceré narra le vicende della famiglia patrizia degli Uzeda, in un arco cronologico che va dal 1855 al 1882, cioè dalla crisi del potere borbonico fino alle prime elezioni a suffragio allargato del nuovo regno d'Italia. La grande macchina romanzesca prende avvio dalla morte della principessa madre Teresa: a scatenare infatti la fittissima serie di contrasti, ricatti, inganni è l'apertura del suo testamento. Delle tre generazioni degli Uzeda, De Roberto narra le vicende a partire da un approccio che egli stesso definisce di "curiosità": ciò che deve emergere dalla narrazione sono le ragioni occulte e le dinamiche psicologiche dei personaggi le cui azioni sono esclusivamente dominate dalla logica del potere. I fatti raccontati sono filtrati attraverso una prospettiva per cui i minuti episodi della quotidianità dell'alta aristocrazia isolana riverberano gli eventi della storia nazionale. Motore scatenante dell'intera narrazione de I Viceré, come già detto, è la lettura del testamento della principessa Teresa: si tratta di un atto irreversibile, in quanto postumo, col quale già la capofamiglia, per un suo capriccio, mette in crisi l'ordinamento domestico feudale, negando al primogenito Giacomo il diritto di ottenere in eredità l'intero patrimonio familiare e nominando coerede il prediletto terzogenito Raimondo, lasciando le briciole agli altri figli. Come infatti si comprende dalle parole di don Blasco, Teresa "costrinse don Lodovico, il secondogenito, a farsi monaco mentre gli toccava il titolo di duca; la primogenita [Angiolina, monaca di san Placido] fu chiusa alla badia!...Se campava ancora ci avrebbe messo anche l'altra [Lucrezia]!...Maritò Chiara perché questa non voleva maritarsi!...Tutto per amor d'un solo, del contino Raimondo..."16. Perciò, dopo la lettura del testamento, al narratore non resta altro che analizzare le varie reazioni comportamentali dei discendenti di donna Teresa. La trama si svolge attraverso due passaggi generazionali. In un primo tempo, con il principe Giacomo sembra che la legge feudale venga vittoriosamente ripristinata: infatti egli cerca in vari modi di riconcentrare nelle sue mani tutti i beni di cui la madre lo ha privato. Nel frattempo però i tempi stanno cambiando e, grazie all'avvento della civiltà borghese, ai componenti della famiglia Uzeda si aprono nuove strade per la scalata al potere politico ed economico. A tal proposito, basti citare l'esempio del duca Gaspare che, grazie alla carriera parlamentare, ottiene prestigio e ricchezza pari a quelli di Giacomo. Questo modello verrà ripreso dal giovane Consalvo che sarà addirittura disposto a lasciarsi diseredare dal padre pur di ottenere l'ambito posto di deputato nazionale. In seconda istanza, a percepire l'importanza dell'occasione offerta dalla storia, si trovano coloro che dall'assolutismo feudale avevano ricevuto grandi torti e al contempo grandi privilegi: è il caso di don Blasco che, pur costretto a diventare monaco, continua a condurre una vita dissoluta. Al contrario, c'è chi fallisce, come Ferdinando, soprannominato da tutti il Babbeo. In generale comunque tutti i componenti della famiglia Uzeda si contrappongono al potere tirannico del capofamiglia, tutti cercano di contrastare la sua supremazia e garantirsi un margine di indipendenza, senza mai però coalizzarsi tra loro. Nessuno vuole correre il rischio di lavorare per il beneficio altrui. Al nucleo tematico principale si affiancano e si intersecano altre due linee guida: le vicende caratteristiche individuali, che possono avere un esito positivo o negativo per l'interessato, e quelle sentimentali di coppia, destinate tutte al fallimento, sia che si tratti di matrimoni combinati, come quelli di Raimondo e Matilde, Chiara e il marchese, Teresina e Michele, sia che le nozze siano state liberamente conseguite, come nel caso di Lucrezia e Benedetto. La morte, i funerali e la lettura del testamento di donna Teresa segnano un momento di riunione di tutti i personaggi romanzeschi: subito dopo, la trama si disperde in diverse direzioni, ciascuna rivolta ad un singolo membro della casata. Nell'universo derobertiano le relazioni interpersonali si costituiscono solo come guerre fra l'io e gli altri: è proprio la famiglia a rappresentare il luogo in cui si verifica la selezione di coloro che sono più adatti a primeggiare sui parenti oggi, come sui concittadini domani. All'interno dello stesso nucleo familiare non vi è alcuna parità tra i componenti: c'è chi si trova in condizioni di maggior vantaggio, ma ciò non basta per primeggiare sugli altri. Si pensi al caso di Giacomo, che, primogenito, deve comunque destreggiarsi per affermare il suo ruolo di capofamiglia. Viceversa, colui che gode dei favori della madre, Raimondo, non potrà contare su questo privilegio per lungo tempo. In genere, nelle famiglie aristocratiche i figli cadetti sono destinati ad una vita precaria: ciò è confermato, ad esempio, dalle vicende di don Eugenio e di Ferdinando, ma fa sicuramente eccezione il caso di Gaspare. Spesso inoltre è proprio la famiglia a decretare le imposizioni più pesanti, come la monacazione forzata di Angiolina, don Blasco e Lodovico. Però, mentre l'esempio della monaca di San Placido mostra un annullamento totale della sua personalità, per i due personaggi maschili la costrizione di cui sono oggetto si risolve in stimolo ad un'autoaffermazione più energica. Infine, ad essere maggiormente vittime della mentalità aristocratico-feudale sono le donne, come Teresina e Margherita, costantemente indotte all'obbedienza passiva, a cui tuttavia si contrappongono le figure di nonna Teresa e Ferdinanda, che, pur essendo donne, in modi diversi, riescono ad imporre la loro personalità. C'è chi insomma riesce a rimontare gli svantaggi di partenza e chi invece non sa trarre profitto dalle circostanze favorevoli. Viene così sancita la validità dell'unica legge regolatrice dei comportamenti umani, la legge del più forte. Anzi, nei Viceré sono proprio coloro che hanno dovuto superare gli ostacoli più gravi ad emergere vittoriosamente, come emblematicamente dimostra la parabola di Consalvo, che, da giovane scapestrato, si reinventa come rampante ed astuto uomo politico. Per De Roberto l'individuo obbedisce ad un unico istinto che è quello dell'affermazione di sé: se questa istanza primaria non viene raggiunta, fallisce lo scopo e la frustrazione genera un senso d'impotenza tale per cui l'io trova riparo solo nella pazzia. D'altro canto, quando l'individuo raggiunge il successo, ritiene di possedere un potere sconfinato che gli consente di stravolgere a proprio arbitrio la realtà. S'incammina così lungo un percorso di schizofrenia, opposta ma analoga all'altra. Ecco allora la paura superstiziosa della malattia e del contagio, della iettatura e della morte ad accomunare Margherita, Giacomo, Consalvo, Teresina e Matilde. Quest'ultima in particolar modo trasforma il proprio sentimento d'amore verso Raimondo in un desiderio di imporre la propria presenza a chi non ne vuole sapere. Essa dunque, martirizzata dal marito e dai suoi parenti, è soprattutto vittima di se stessa e del suo amore follemente incondizionato, disposto a subire qualsiasi oltraggio. La sua voluttà masochista è più volte delineata nel corso del romanzo: "si, si, così! Il bene del cane per il padrone, la devozione d'uno schiavo per l'essere di un'altra razza, più forte, più alta, più rara"17. A determinare la minaccia della follia sui protagonisti è l'estrema volontà di autoaffermazione: ad accomunare paradossalmente tutti i personaggi, sempre in guerra tra loro, è la medesima pulsione egocentrica che diventa carattere costitutivo dell'identità antropologica. A ciascun ritratto fisionomico il narratore conferisce una caratteristica dominante riconducibile all'istinto vitale dell'affermazione di sé: il dispotismo di donna Teresa, la cupidigia di Giacomo, l'unzione di padre Lodovico, l'ansia di elogi di Teresina, l'avarizia di Ferdinanda, e così via. Tutti gli Uzeda quindi appaiono collocati a metà strada fra la normalità e la follia, tutti mossi da una tracotanza che li spinge ad adattare il mondo a se stessi. Tuttavia, a caratterizzare l'intero sistema dei personaggi è la netta contrapposizione tra forti e deboli, vincitori e sconfitti, carnefici e vittime. Il lettore è sì invitato a immedesimarsi nelle sofferenze di coloro che subiscono la prepotenza viceregale, ma in realtà è impossibile ogni identificazione empatica, perché i perdenti sono artefici della loro stessa rovina, come già esemplificato dal caso di Matilde. Perciò, non ha valore una distinzione tra buoni e cattivi, poiché anche i primi sono spinti solo dallo sforzo di affermare se stessi: il loro insuccesso è dovuto alla loro incapacità di cogliere i meccanismi della realtà. Infatti, per raggiungere la piena affermazione di sé, l'individuo non deve necessariamente possedere particolari virtù etiche o doti intellettuali, ma essere capace di equilibrare il proprio istinto autoaffermativo e il senso della realtà. Nel descrivere i personaggi, De Roberto mette in risalto l'incongruenza tra la meschinità dei loro reali sentimenti e la loro falsa spettacolarizzazione esteriore. Per porre in luce tale aspetto, l'autore ricorre, nelle raffigurazioni e nei ritratti, a forme caricaturali, tanto più grottesche quanto più tese a far emergere l'autenticità caratteriale di ciascun personaggio. Gli Uzeda sono tutti brutti, di una bruttezza turpe, ad eccezione del contino Raimondo e di Teresina, la cui bellezza pura ed aggraziata non serve ad altro che mettere in luce, per contrasto, la volgarità dei lineamenti degli altri familiari. L'esempio più emblematico riguarda il cavaliere don Eugenio: "Sul viso dimagrito ed emaciato il naso sembrava essersi allungato, come una tromba, una proboscide, un'appendice flessibile atta a frugare in mezzo al letame; la caduta dei denti, affossando la bocca, aveva contribuito anch'essa a quell'apparente crescenza che dava a tutto il viso un aspetto basso, ignobile e quasi animalesco"18. Al ritrattismo fisico si accompagna un ritrattismo interiore, in cui la tecnica caricaturale diventa ancor più crudele. La definizione coscienziale di un personaggio viene ridotta a una sola caratteristica, descritta in maniera tanto eccessiva da raggiungere le dimensioni dell'assurdo. Da notare inoltre che l'autore, per non cadere nella monotonia, rovescia i termini dell'effetto caricaturale, affermando la coerenza interiore del personaggio tramite una incoerenza sbalorditiva di comportamenti esterni. Ciò è già visibile nel terzo capitolo della prima parte del libro, attraverso i pensieri della principessa Teresa: "Ella sapeva com'eran fatti tutti quegli Uzeda; quando s'incaponivano in un'idea, neanche a spaccargli la testa li potevan rimuovere; erano dei Viceré, la loro volontà doveva fare legge! Ma da un giorno all'altro, quando uno meno se l'aspettava, senza perché, cangiavano di botto; dove prima dicevano bianco, affermavano poi nero; mentre prima volevano ammazzare una persona, questa diventava poi il loro migliore amico..."19. La medesima diagnosi viene ribadita nella pagina conclusiva dell'opera da Consalvo: "Noi siamo troppo volubili e troppo cocciuti ad un tempo [...]. Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male..."20. Dunque nei Vicerè la definizione critica dei protagonisti tende ad assumere i connotati icastici dell'ironia. In particolare, a tal proposito, lo Spinazzola individua sei livelli entro cui sono disposti i personaggi21: Oggetto di un sereno ed allegro divertimento sono i conventuali di san Nicola, i quali suscitano un buon umore spassoso, in quanto caratterizzati da un'estrema contraddizione tra l'elevatezza degli ideali professati e la bassezza materiale del loro stile di vita. I personaggi più aridi ed alieni a qualsiasi sentimento empatico sono sottoposti ad una comicità più pungente, ma al contempo priva di astio e di qualunque forma di condanna da parte dell'autore. In primo luogo ricordiamo il monaco don Blasco e la zitella donna Ferdinanda, unici personaggi caratterizzati dalla coincidenza tra l'apparire e l'essere. Entrambi infatti, costretti ad una condizione di vita opposta alla loro natura, esternano con decisione la loro avversione nei confronti di tutto ciò che li circonda. A tale categoria possono essere inoltre ascritti donna Graziella e don Lodovico, "i due mostri di unzione ipocrita", che cercano di mascherare la loro vera indole, ma anche al lettore più ingenuo risulta evidente la non spontaneità del loro comportamento. Ad essere sottoposti ad un'ironia più mordace sono quei personaggi sostanzialmente seri, che l'autore si diverte a mettere in ridicolo nel momento in cui, cedendo alla debolezza, si mostrano inferiori a se stessi, assumendo atteggiamenti che non sono consoni al loro modo di essere. La ridicolizzazione, in questo caso, non investe la fisionomia complessiva dell'io, ma singoli aspetti del carattere. Si possono citare, ad esempio, l'episodio in cui Consalvo resta sei ore in piedi perché non si trova la chiave del ripostiglio in cui è rinchiuso il suo seggiolone personale, oppure il "trattamento" ad acqua pura ed anice che il principe Giacomo, per spilorceria, riserva ai suoi ospiti. A investire per intero la personalità dell'io è la satira demistificatrice, di cui è emblematicamente oggetto il duca Gaspare, gran patriota a parole, piccolo opportunista nella sostanza. I toni di un sarcasmo sferzante sono riservati a quei personaggi che sono inevitabilmente destinati alla sconfitta a causa della loro inettitudine. Si pensi a Lucrezia, smaniosa di prevalere e incapace di comprendere i propri limiti, suo fratello Ferdinando, il Babbeo, relegato ad una eterna condizione infantile, lo zio don Eugenio, imbroglione per vocazione e mendico per necessità, e la sorella Chiara, inappagabile nel tentativo di soddisfare il desiderio di maternità. Ma lo stesso sarcasmo è rivolto pure a Benedetto Giulente, il povero avvocato liberale, la cui unica colpa, a differenza di tutti gli altri, è riconducibile alla sola debolezza del carattere, che lo spinge ad ingraziarsi in qualunque modo gli Uzeda, di cui finalmente è entrato a far parte attraverso il matrimonio con Lucrezia. Egli comunque rimane in fondo una persona perbene. La fredda condanna di Giulente, novello Mastro don Gesualdo, da parte dell'autore dipende proprio dal fatto che si è rovinato con le sue stesse mani: per quanto si sforzi, non può cambiare la tragica legge umana per cui ogni pretesa di ascesa sociale si risolve inevitabilmente in un fallimento. Un'ironia gelida e senza ombra di sorriso caratterizza la raffigurazione del contino Raimondo, che viene dipinto come un essere totalmente incapace di qualsiasi passione: è privo di doti pratiche, non è interessato agli affari né alla politica, e la sua dimensione di vita riguarda solo la più superficiale mondanità. A smuoverlo dalla sua aridità è solo la presenza di un ostacolo che non gli consente di raggiungere i suoi obbiettivi: per esempio, pur di sposare l'amante, Isabella Fersa, è disposto a qualunque azione, ma, una volta conseguito il matrimonio, l'oggetto del suo desiderio perde qualunque valore ai suoi occhi. Estranei all'ironia di De Roberto sono quei personaggi femminili che, per debolezza di volontà, rinunciano a essere se stessi. Ad essi, a cui pure è attribuita la colpa di non aver saputo sviluppare le buone qualità di cui erano provvisti, l'autore si rivolge con una delicata indulgenza comprensiva. Caso più lampante, la principessa Margherita, creatura dolce ma del tutto remissiva, che non emerge mai in primo piano perché sempre disposta a sottomettersi ai voleri altrui e a scaricarsi, per indolenza, di ogni responsabilità, riducendo al minimo qualsiasi contatto con il prossimo. Sul medesimo piano può essere posta la figlia Teresa: puntigliosamente l'autore spiega di volta in volta le tecniche attraverso cui la ragazza viene piegata come cera alla volontà del padre Giacomo. Il riconoscimento ammirativo è più visibile verso i personaggi che ispirano minore simpatia, ovvero donna Teresa, il principe Giacomo e Consalvo. Nel passaggio da una generazione all'altra, infatti, all'interno della famiglia Uzeda vi è sempre un capofamiglia in grado di imporsi ribaltando il dominio del suo predecessore. È vero, si tratta di figure spietate ed egoiste, ma i loro comportamenti non sono condannati dall'autore, in quanto non sono la conseguenza di una loro colpa, bensì l'adempimento di un compito che li trascende e corrisponde perfettamente alla loro natura, alla quale non possono non attenersi. Consalvo, erede ultimo della casa Uzeda, insieme alla sorella Teresa riveste un ruolo di primo piano all'interno del romanzo. In primo luogo, nell'ambito delle continue lotte familiari, essi rappresentano un raro caso di amore fraterno disinteressato e solidale. Rappresentanti dell'ultima generazione degli Uzeda, sono i personaggi che l'io narrante sente più vicino a sé, motivo per cui il risentimento nei loro confronti risulta essere più amaro. Antitetiche e complementari, le entrate in scena dei due fratelli sono precedute dalle vicende dei loro parenti più prossimi che hanno quasi valore di antefatto. La storia di Consalvo e Teresa appare ancor più plausibile per il fatto che ogni loro azione è perfettamente consequenziale alle lezioni ed esperienza di vita apprese sin dalla nascita. Consalvo si caratterizza per la sua aggressività sia nella rivolta contro l'autorità paterna sia nella manipolazione della sua attività politica. Teresa invece è connotata da una seria religiosità e da una cieca obbedienza filiale che la porta a scelte masochiste. L'energia vitale della vecchia razza non si è dunque spenta, ma risorge attraverso i due fratelli che riescono a soddisfare le rispettive pulsioni di ambizioni, a costo di qualunque sacrificio. All'interno della plumbea atmosfera dei Viceré, si distingue un personaggio singolarissimo, colto e gentile, dolce e rigoroso, di nascita aristocratica ma privo di boria castale, in sintonia con i tempi nuovi ma estraneo ad ogni forma di compromesso. Si tratta del giovane Giovannino Radalì, nel cui ritratto convergono la bellezza virile dell'aspetto e la generosità delicata del carattere. Proprio ciò determinerà la sua totale sconfitta, sia in ambito pubblico che in ambito privato. Egli si presenta come uno Jacopo Ortis redivivo, al quale è accomunato dalle medesime delusioni politica e sentimentale. Ma è di gran lunga più grave il dramma di Giovannino perché, a differenza di Jacopo, è ricambiato da Teresa, la donna che ama, eppure non può averla perché destinata a sposare il fratello. Unica strada da intraprendere, come già per il personaggio foscoliano, è pertanto quella del suicidio. Egli si trova nella condizione perfetta per comprendere e valutare tutte le vicende della famiglia Uzeda: questa non è altro che il covo di maniaci perversi, intenti solo a sbranarsi tra loro, ma accomunati dalla stessa vana gloria di appartenenza alla stessa razza. La nobiltà isolana diventa unica e reale protagonista del romanzo derobertiano: non vi è spazio per la borghesia (rappresentata, non a caso, solo dallo sconfitto Giulente), proprio perché essa si è lasciata abbindolare dall'instaurazione del nuovo clima politico, diventando in realtà complice del mantenimento del predominio economico-sociale della nobiltà feudale. VALENTINA FASSI I Vicerè e L'Imperio, il romanzo terribile Il cosiddetto "ciclo della famiglia Uzeda" si apre con il romanzo L'Illusione, seguito da I Vicerè, e si conclude con il romanzo postumo L'Imperio. La critica è concorde nel rilevare che il ciclo non si possa inquadrare in una trilogia, sia per il materiale narrativo trattato (le vicende de L'illusione si possono inserire nei Vicerè, mentre quelle de L'Imperio nei Vicerè trovano soltanto una premessa), sia per le profonde differenze tematiche e stilistiche dei tre romanzi. L'Illusione, edito da Galli, a Milano, nel 1891, viene definito, dallo stesso autore, "un monologo di 450 pagine"22, in cui si cerca di chiarire come l'amore sia, alla stregua di tutti gli altri sentimenti, una mera illusione. La protagonista del romanzo è la nobildonna Teresa Uzeda, figlia del conte Raimondo Uzeda di Lumera, uno dei protagonisti dei Vicerè: Teresa vive, attraverso la bellezza e l'eleganza, nella continua ricerca del successo nella società aristocratica. Attende una travolgente passione amorosa, nutrendosi di fantasticherie, stimolate anche dalla lettura di Walter Scott, di Balzac e di Sue. Tratteggiato sul modello flaubertiano di Madame Bovary, il personaggio di Teresa, dopo aver sposato, per ragioni di titoli nobiliari Guglielmo Duffredi, passa da un amante all'altro, fino alla presa di coscienza che il suo percorso esistenziale si è mosso sulla scia di continue disillusioni, che l'hanno portata a un bilancio drammatico e fallimentare della propria vita. Attraverso un larghissimo uso del discorso indiretto libero, vera cifra stilistica del romanzo, De Roberto compie un'operazione di analisi psicologica approfondita della protagonista. Il brano che segue è un estratto esemplare della tecnica narrativa che l'autore utilizza nell'Illusione, e che allontana questo romanzo dai Vicerè: Uno dei crociati, Raimondo Almarosa, la guardava spesso: non era più giovane, ma quanto più attraente di tanti giovani! Alto, magro, biondo, di un biondo che diventava bianco; serio, quasi sempre malinconico per aver perduto la moglie e la figliuola, nello stesso giorno, al tempo del colera. Cosa vedeva in lei? Una rassomiglianza? Una delle sue povere morte rediviva? Ella si perdeva in fantasticaggini. Al teatro, quando uno sguardo d'uomo si fermava a lungo su lei, pensava a Giuseppe Balsamo, al magnetico fascino che certuni sapevano esercitare. I romanzi erano sempre i consiglieri ai quali chiedeva suggerimenti. Adesso conosceva la vita! Ed una vita intensa ella viveva, con i suoi libri. Slanci d'entusiasmo e dolori sconfinati, raccapricci e frenati, sorrisi e lacrime, essi le davano tutto. Alle volte, dopo lunghe ore di lettura, si alzava con un'oppressione fisica, un disgusto, una nausea per tutte le cose, per le volgarità dell'esistenza alle quali doveva sottostare e che l'agguagliavano alla folla brutta e aborrita. Rifiutava i cibi, voleva potersi nutrire d'aria, si procurava finalmente qualcuno dei soliti attacchi nervosi. Più degli eroi di quei libri ella amava le eroine; vedeva nelle donne altrettante sorelle; e poi, non erano esse arbitre dei destini umani? (L'Illusione, p. 156) I periodi, come si può notare, sono costruiti attraverso frasi brevi, di struttura molto semplice, rese omogenee dai tempi verbali (tutti imperfetti canonici), e movimentati dall'introduzione di alcune interrogative e esclamative. Si rileva inoltre la continua intersezione fra discorso indiretto e discorso indiretto libero, che non solo mescola e confonde ciò che accade con ciò che è immaginato dalla protagonista, ma riesce anche, come annota Carlo A. Madrignani, "a dare corpo a quel particolare naturalismo psicologico che nasce dal gioco raffinato delle distanze e dei riavvicinamenti tra personaggio e autore, nel duplice intento di evitare sia l'identificazione che il distacco oggettivo"23. Questo stile è teso, dunque, alla rappresentazione della realtà psicologica di Teresa, che è al contempo il simbolo della ricerca e della vanità della ricerca, dell'amore come cumulo di dubbi e di disinganni. Un'analisi in primo piano che avvicina L'Illusione all'Ermanno Raeli e che non ha nulla a che fare con lo studio dei numerosi personaggi dei Vicerè, la cui psicologia viene tracciata con linee schizzate. Ben più interessante, per le sue contingenze con I Vicerè è il caso de L'Imperio. L'idea originaria de L'Imperio può risalire al 1891, quando, in una lettera all'amico Ferdinando Di Giorgi, Federico De Roberto scrive: mi sono fermato mezza giornata a Livorno, e sono sceso a terra, dove ho copiato delle epigrafi che messe a confronto con certe esclamazioni di un barcaiolo e di un doganiere, mi hanno suggerito un effetto pieno di humour, da cavare in un futuro romanzo sull'Italia politica contemporanea.24 Tre anni dopo, in un'intervista25 rilasciata a Ugo Ojetti, De Roberto comunica ufficialmente il proposito di scrivere un romanzo di vita parlamentare; soltanto l'anno seguente, tuttavia, in un'altra lettera al Di Giorgi, si legge che, nonostante siano già stati scritti cinque capitoli, l'autore ha deciso di mettere da parte il progetto: L'imperio, cominciato da due anni, sta per ora a dormire: ne ho scritti cinque capitoli, ma mi spaventano le difficoltà.26 Il romanzo verrà abbandonato per i tredici anni successivi. L'idea sarà infatti rispolverata soltanto nel 1908, quando De Roberto, stabilitosi a Roma, potrà studiare "dal vero" la vita parlamentare italiana, oggetto del suo romanzo. La vicenda compositiva de L'Imperio si presenta, dunque, poco documentata e sviluppata in fasi alterne: i primi cinque capitoli vedono la luce tra 1893 e il 1895, mentre i rimanenti quattro intorno al 1908-09. Poi il romanzo verrà definitivamente abbandonato e sarà edito postumo e incompiuto, da Mondadori, nel 1929. Nell'introduzione all'edizione mondadori del 1981, Madrignani ..rif al dattiloscritto. La vicenda narrata racconta parallelamente la storia di Consalvo Uzeda, eletto deputato nel 1882, e giunto quindi a Roma, e quella di Federico Ranaldi, giovane giornalista salernitano, monarchico e idealista, anche lui trasferitosi nella capitale. Consalvo, comprendendo immediatamente che il potere e gli onori riservati in Sicilia alla sua famiglia, a Roma non trovano il minimo riscontro, tenta in ogni modo di emergere, anche attraverso i consigli del suo protettore, il ministro degli interni, e fondando un giornale, "La Cronaca", finchè rimane lievemente ferito in attentato da parte di un socialista, diventando così, per l'opinione pubblica borghese, il difensore del conservatorismo. Federico Ranaldi, giornalista de "La Cronaca" e poi collaboratore di Consalvo, compie un percorso di rifiuto e straniamento rispetto alle vicende di corruzione e incoerenza che respira nelle aule del parlamento. Dopo la caduta di Consalvo, Ranaldi ritorna a Salerno, dove, affranto dalla disillusione e dallo scoramento, trova la sola ragione di vita nell'amore per Anna, una giovane tradizionalista e sempliciotta. Dalla trama si evince come L'Imperio si configuri come un romanzo di forte impronta politica, e su questa linea si innestano la contiguità e la continuità con I Vicerè. Fra i due romanzi vi sono, tuttavia, evidenti differenze di metodo: nei Vicerè, osservazione minuziosa della classe dirigente siciliana a cavallo dell'unità d'Italia, la politica è velata dalla volontà di descrivere in maniera rigorosa gli intrecci e le strutture feudali della società nobiliare siciliana, che giunge a simboleggiare la Sicilia intera, e, in qualche misura, tutta la nuova Italia post-unitaria. L'Imperio manca, al contrario, della tensione progettuale unitaria dei Vicerè, e si sviluppa attraverso la modulazione di due punti di osservazione sulle vicende, quello di Consalvo e quello di Federico. Questa struttura disperde la fredda oggettività e il distacco ironico in cui erano impiantati i fatti dei Vicerè, a favore, almeno apparentemente, del malcelato punto di vista critico dell'autore, che emerge, attraverso il personaggio di Ranaldi. Il romanzo accoglie, però, insieme ai due maggiori punti di osservazione, una pluralità di impulsi provenienti da altri e diversi punti di vista, grazie ai quali, per usare le parole di Madrignani, "si trova ad assumere contorni decisamente irregolari, anche se la spinta decisiva sembra risolversi a favore di un naturalismo classico"27. A questo proposito, può essere utile il confronto fra i due incipit dei romanzi, entrambi costruiti sulla ricca polifonia che descrive la situazione: si noterà, però, che le molte voci dei Vicerè sono regolate dal distacco ironico di cui si parlava poc'anzi, mentre ne L'Imperio sono filtrate dal punto di vista di Federico Ranaldi: Giuseppe, col bambino ancora in collo, era rimasto intontito, non comprendendo; ma sua moglie, la moglie di Baldassarre, la lavandaia, una quantità d'altri servi già circondavano la carrozzella, si segnavano udendo il cocchiere narrare, interrottamente: "La principessa... Morta d'un colpo... Stamattina, mentre lavavo la carrozza..." "Gesù!... Gesù!..." "Ordine d'attaccare... il signor Marco che correva su e giù... il Vicario e i vicini... appena il tempo di far la via..." "Gesù! Gesù!... Ma come?... Se stava meglio? E il signor Marco?... Senza mandare avviso?" "Che so io?... Io non ho visto niente; m'hanno chiamato... Iersera dice che stava bene..." "E senza nessuno dei suoi figli!... In mano di estranei!... Malata, era malata; però, così a un tratto?" Ma una vociata, dall'alto dello scalone, interruppe subitamente il cicaleccio: "Pasquale!... Pasquale!..." "Ehi, Baldassarre?" "Un cavallo fresco, in un salto!..." "Subito, corro..." Intanto che cocchieri e famigli lavoravano a staccare il cavallo sudato e ansimante e ad attaccarne un altro, tutta la servitù s'era raccolta nel cortile, commentava la notizia, la comunicava agli scritturali dell'amministrazione che s'affacciavano dalle finestrelle del primo piano, o scendevano giù addirittura. "Che disgrazia!... Par di sognare!... Chi se l'aspettava, così?..." (I Vicerè, pp. 3-4) Le voci dei giornalisti che cominciavano ad entrare nella tribuna distolsero Ranaldi dalla contemplazione. Due di quelli che parlavano animatamente nella saletta proseguivano a discutere anche ora che s'avviavano a prender posto; ma non più col calore di prima, anzi piano e quasi sottovoce. "Vedrai!... Vedrai!..." diceva uno, piccolo, magro, con una punta di barbetta sul mento, al compagno, piccolo anch'egli, ma grasso, con gli occhiali d'oro a stanghetta sulla faccia lucida e rossa; il quale replicava, soffermandosi e scotendo il capo: "No, non è possibile!... All'ultimo momento?..." "Anzi!... O perché?... La cosa è preparata accortamente... Le dichiarazioni del governo serviranno di pretesto..." "Ma se ancora non si conoscono?..." "Norsa, andiamo!... Sei troppo ingenuo!... Qualunque cosa il governo dichiari..." "Ai voti!... Ai voti!..." esclamò un terzo giornalista, entrando frettolosamente nella tribuna, seguito da altri compagni, dei quali pareva volesse sbarazzarsi, ripetendo: "Ai voti! Ai voti!... La discussione è chiusa!..." "Puoi telegrafare alla Gazzetta la vittoria del ministero!" "Ma guarda!... Guarda un po'!..." ad una nuova voce più squillante Ranaldi si rivoltò e scorgendo il cronista sopraggiunto additare qualcuno nell'aula, vide che questa già cominciava a popolarsi. "Ma guarda un po' Vittoni che entra a braccio diLuzzi!" "Si sono rimangiati i propositi battaglieri di ieri?" "Buffoni!... Pagliacci!..." (L'Imperio, pp. 4-5) E' bene comunque annotare che, al di là degli esiti differenti, un fil rouge tematico lega i due romanzi. Nell'explicit dei Vicerè, De Roberto affida a Consalvo, futuro protagonista de L'imperio, un discorso che chiarisce le leve opportunistiche e strumentali della sua passione politica. Questo opportunismo sarà poi la caratteristica del Consalvo de L'imperio, dove il personaggio, però, diventerà emblema del diffuso modo di intendere e fare la politica, ritratto attraverso lo studio "dal vero". Ecco il discorso di Consalvo: La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d' oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell'Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L'Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. [...] In politica, Vostra Eccellenza ha serbato fede ai Borboni, e questo suo sentimento è certo rispettabilissimo, considerandoli come i sovrani legittimi... Ma la legittimità loro da che dipende? Dal fatto che sono stati sul trono per più di cento anni... Di qui a ottant'anni Vostra Eccellenza riconoscerebbe dunque come legittimi anche i Savoia... Certo, la monarchia assoluta tutelava meglio gl' interessi della nostra casta; ma una forza superiore, una corrente irresistibile l' ha travolta. Dobbiamo farci mettere il piede sul collo anche noi? Il nostro dovere, invece di sprezzare le nuove leggi, mi pare quello di servircene!... (I Vicerè, pp. 648-649) Nell'amaro finale dei Vicerè, De Roberto introduce la tesi sulla quale impronterà L'imperio, e che si tematizzerà nell'ultimo capitolo attraverso il personaggio, sempre più autobiografico di Federico Ranaldi: De Roberto "mette, cioè, in crisi", come annota Alessandra Briganti "insieme al concetto di Progresso, l'idea di storia come processo lineare"28, dove tutto si ripete sempre e tutto è vano. Tanti uomini si dànno alla milizia, forniscono le armi per uccidere coloro che li vogliono uccidere, si preparano ad una sterile e sanguinosa opera di difesa e di offesa; altri si stillano il cervello per inventare nuovi ordigni e nuove macchine che complicano sempre più le cose, altri per accrescere d'una pagina, d'una riga, il libro dell'ignoranza umana; altri predicano le parole d'un Dio che nessuno ha visto, di cui tutti in qualche ora dubitano; non se ne troveranno alcuni che, compresa la fallacia e l'insania di questa e di tutte le altre omiglianti attività, attenderanno unicamente a svellere il male umano dalle radici? Tanti partiti sorgono, si trasformano, si riformano, si scindono, per meglio combattersi mentre sono divisi soltanto da parole, da equivoci, da malintesi; e non se ne formerà mai uno, composto sia pure di pochissimi coscienti, che grideranno a tutti gli altri la loro insania, e li sforzeranno a riconoscere l'origine prima dei loro dolori e li guariranno loro malgrado del male della vita?... (L'Imperio, pp. 215-216) E Federico Ranaldi troverà nell'amore della semplice Anna, la sola spinta vitale che lo salverà dal suicidio. Oltre questa soluzione finale, che appare, almeno al gusto moderno, goffa e affrettata, de L'imperio rimane la tagliente satira dei costumi politici, che quando non scade nello sdegno morale di Ranaldi, riesce ad essere sottilmente ironica e affilata. Nel descrivere le dinamiche della vita politica dei palazzi romani, e in particolare del parlamento, descritto come luogo chiassoso e volgare, De Roberto sfodera un sapere che, a tratti è bozzettistico, è vero, ma che riesce ad essere tristemente, e inconsapevolmente, contemporaneo. Quando egli si domanda ironicamente: Nella solenne ascensione delle gradinate dal piano un poco oscuro dell'emiciclo verso il cielo del lucernario donde pioveva una chiarità pacata, eguale, senza contrasti di raggi e d'ombre; nella sontuosità delle arcate e nella gravità delle colonne giranti attorno alle tribune; e più che altrove nell'imponenza del banco presidenziale [...]c'era qualche cosa del tempio. Non era quello, infatti, il tempio dove convenivano i fedeli al culto della patria e dove se ne celebravano i riti? Questa stessa domanda, sempre ironicamente, ma con una connotazione più drammatica (poiché sono passati cento anni), non la possiamo porre anche noi? DAVIDE PODAVINI I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo In questo capitolo ci occuperemo di definire le principali analogie e differenze che intercorrono tra I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Luigi Pirandello e Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. I primi due sono innanzi tutto accomunati dalla scarsa fortuna letteraria: il romanzo derobertiano, pubblicato nel 1894, è stato infatti ignorato per oltre mezzo secolo, mentre quello pirandelliano, edito nel 1913 da Treves, per lungo tempo è stato considerato l'opera meno significativa di un autore che pure aveva già raggiunto fama internazionale. Il Gattopardo, pubblicato postumo nel 1958 a cura di Giorgio Bassani presso Feltrinelli, accolto dal pubblico con grande interesse, diede avvio a un "caso letterario" destinato a far discutere a lungo. Le principali caratteristiche comuni ai tre romanzi sono state messe in luce con estrema chiarezza dallo Spinazzola: "si tratta di una triade di opere che intendono offrire una rappresentazione narrativa e una interpretazione saggistica di eventi connessi al passaggio della Sicilia dal regime assolutista al liberalesimo borghese, per effetto dell'unificazione nazionale italiana. A venir messi reiteratamente a fuoco sono l'ambiente, la mentalità, i costumi delle grandi famiglie aristocratiche isolane, insediate a Catania o Agrigento o Palermo. La tipologia del racconto è la saga, intesa come affresco storico-sociale ad ampie volute, su un arco di tempo esteso, con una pluralità di personaggi in campo; la dimensione psicologica ha tuttavia un'importanza essenziale. In tutti e tre i casi la narrazione è connotata, sia pure in senso non esclusivo, da un forte criticismo ironico, che rinvia ad uno scetticismo antropologico, ma esprime una carica polemica vivacemente attualistica"29. A fare da modello a tutti e tre gli autori è il romanzo storico, un genere letterario ormai diffusosi anche tra un pubblico meno colto, rappresentato emblematicamente dai Promessi sposi, componimento misto di storia ed invenzione. In tal senso l'opera derobertiana ripropone ed esaspera l'immagine del mondo manzoniano, in cui non vi era più spazio per la moralità e l'onestà intellettuale. Ma, se nell'opera dell'autore milanese traspare la speranza nell'imminente rinascita delle sorti d'Italia, sessant'anni dopo l'insoddisfazione per i metodi e risultati della democrazia rappresentativa era tale da non consentire ad un autore di fine Ottocento di rappresentare l'era risorgimentale se non in maniera negativa e sarcastica. De Roberto, nel far riferimento ai fatti storici, segue un criterio di verosimiglianza di tipo resocontistico, anzi, l'esigenza di attenersi alla realtà è determinata ancor più dal fatto che il libro evoca un passato assai prossimo, quasi presente. Non bisogna tuttavia sottovalutare il fatto che il romanzo storico è aperto a variazioni esecutive. Infatti I Viceré è sì un romanzo storico, ma già nelle intenzioni dell'autore si configura come un "romanzo di costumi contemporanei". Come afferma Madrignani, "l'ottica dell'autore è quella di chi nel Risorgimento vede non tanto una rivoluzione borghese...ma la maniera, non dissimile da quella sempre vigente, di mantenere il potere da parte di un ceto votato sempre al comando"30. Anche I vecchi e i giovani riprende dal romanzo storico la caratteristica del confronto tra passato e presente, tra l'allora e l'adesso, pur non essendoci un enorme distacco tra l'epoca in cui è ambientato il racconto e quella in cui viene presentato al lettore. Solo Il Gattopardo fa riferimento ad eventi intercorsi un secolo prima, richiamati alla memoria dallo scrittore. A connotare tutti e tre i componimenti è il passaggio dai moduli tipici del romanzo storico classico a quelli del romanzo antistorico moderno: essi offrono alla classe dirigente uno specchio in cui riconoscere le proprie fattezze, senza adulazioni o finti compiacimenti. La triade presenta la medesima precarietà che investe la società ad essa contemporanea, pur in epoche differenti e con modalità diverse: De Roberto mette in scena l'Italia umbertina, Pirandello mostra l'epoca postgiolittiana e Tomasi di Lampedusa manifesta, ancora una volta, quarant'anni dopo, la medesima delusione a seguito del fallimento del ripristino della democrazia. Infatti ad emergere è sempre la medesima morale: la borghesia è inetta a promuovere un vero cambiamento nella società, ogni ideologia è destinata al fallimento, il progresso, poiché nulla cambia nelle vicende umane, non può che declinare al peggio. Come emblematicamente afferma il giovane Tancredi nel Gattopardo, "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". Dunque, nel condannare la mentalità borghese, attraverso un genere letterario prettamente borghese, ad essere messa sotto accusa è la storia, ritenuta incapace di cambiare a fondo "il tessuto immobile dell'esistenza"31. Di volta in volta viene messa in scena la disgregazione di un nucleo familiare, scatenata dalla crisi d'autorità del capocasta. Si pensi al tentativo di Giacomo Uzeda di piegare tutti i componenti della famiglia al proprio volere, ma senza gli strumenti adeguati a decretarne il successo; all'autoesilio di Ippolito Laurentano, che rinuncia sdegnosamente ad esercitare la sua funzione; all'inettitudine di Fabrizio Salina, nonostante la sua acuta intelligenza. Venuto meno il prestigio del capofamiglia, i giovani cercano di affermare la loro personalità, dando luogo a nuove relazioni familiari, che però propongono un analogo modello di disarmonia: i membri non sono legati tra loro da nessun tipo di affetto disinteressato, anzi, appaiono ancor più chiusi nel loro cieco egoismo, dediti solo al culto di sé. A questo proposito è interessante rilevare il fatto che l'affermazione dell'autonomia dei figli nei confronti dei padri si colloca, nel passaggio da un romanzo all'altro, in una posizione sempre meno drammatica. Nei Viceré il principe Giacomo esercita una vera e propria tirannide sui familiari più deboli, sia per età che per sesso, motivo per cui il suo scontro con Consalvo raggiunge i limiti del parossismo. Nei Vecchi e i giovani invece la generazione dei padri si è già ritirata in un muto isolamento, tanto che Lando si occupa esclusivamente della ricerca della propria strada. Infine, nel Gattopardo, è il nipote Tancredi ad indicare allo zio Fabrizio l'unica via fattualmente percorribile, ma il principe di Salina rifiuta di seguirlo e si chiude in se stesso. Fattore comune alle tre narrazioni è il dinamismo vitale dei giovani, il cui primario istinto di emancipazione è indotto dalla modernità borghese, che però non indica una meta etica e non conferisce alle ultime generazioni una sostanza umana più solidalmente fraterna. Tutti e tre gli autori mostrano una forte sfiducia nel rinnovamento operato dalla borghesia in campo privato: il potere assolutistico del pater, nonostante fosse oppressivo, conteneva l'emergere degli egoismi individuali. Il risultato di questa svolta non produce altro che uno scatenamento di energie competitive ed aggressive che, fuoriuscendo dall'ordinamento familiare arcaico, sfocerà con più violenza in ambito sociale. Si viene a creare una profonda contraddizione tra libertà e democrazia, aspirazioni individuali ed istanze generali e, alla fine, nessuno dei tre romanzieri trova un modello alternativo a quello costituito. Il dato strutturale basilare è infatti la messa in scena di due sistemi di valori: quello aristocratico e quello borghese. Il secondo, benché storicamente successivo al primo, non è più apprezzabile, ma più infido ed iniquo. Il grande bersaglio è rappresentato infatti dall'individualismo borghese, accusato non d'aver sovvertito un ordine di valori insostenibile, ma di aver attuato un cambiamento che ha portato solo ad una corruttela imperversante. Quanto più l'uomo socializza esteriormente, tanto più si separa interiormente dagli altri, offrendo un'apparente maschera di sé. Unica soluzione possibile, per contrastare l'individualismo borghese, è la riaffermazione delle potenzialità morali proprie di ciascuna coscienza umana: è proprio nell'interiorità dell'individuo che va ricercata l'attitudine a una socialità positiva. Purtroppo però l'io ritrova dentro di sé solo il senso altero dell'appartenenza a una famiglia aristocratica e matura la necessità di riaffermare orgogliosamente la propria superiorità nativa. Infatti, qualunque sia la modalità o l'esito della ribellione ai genitori, i figli se ne confermano sempre degni eredi. Non per nulla il motore delle tre macchine romanzesche spinge in direzione delle figure dei giovani Consalvo, Lando e Tancredi. Pur essendo connotati in maniera assai differente, essi tuttavia incarnano al meglio la capacità, in qualità di individui superiori, di imporsi come soggetti primari del divenire collettivo. De Roberto esalta l'ambizione e l'opportunismo propri dell'autoritarietà dell'ultimo dei Viceré, Pirandello affida le sue speranze di futuro a Lando, che si connota come un eroe dell'intera azione, Lampedusa infine vede nel giovane Falconieri l'unica via per emergere dal vecchio sistema sociale. Dal punto di vista narratologico le tre opere sono accomunate dalla stessa modalità di narrazione onnisciente in terza persona: il discorso è cioè condotto da un'entità narrante che domina pienamente sull'intreccio, coordinandone le fila e spiegandone i nessi. Va comunque sottolineato il fatto che le caratteristiche proprie dell'onniscienza vengono arricchite e riplasmate attraverso le moderne tecniche del discorso indiretto libero e del discorso interiore. Il punto di vista complessivo tende così a confondersi con la voce dei vari personaggi, che costituiscono il mezzo attraverso cui i tre romanzieri si muovono nella narrazione, senza tuttavia fornire alcuna impronta autobiografica. Il doppio gioco tra punto di vista esterno e punto di vista interno porta tuttavia a tre esiti differenti. Nei Viceré si assiste al maggior effetto di disorientamento: l'autore riporta infatti tutte le dichiarazioni verbali e tutti i pensieri inespressi di ciascun personaggio, rendendo in tal modo difficile comprendere la chiave di lettura del testo realmente conforme ai propositi dell'autore. È possibile venirne a capo solo attraverso la fisionomizzazione del personaggio che funge da mandatario del narratore: si tratta di un personaggio secondario, Giovannino Radalì, la cui breve esperienza di vita lo umilia sia negli ideali politici sia negli affetti privati. Come afferma Spinazzola, "è come se postumamente la sua mano guidasse quella di chi rivisita le vicende sue e dei suoi parenti"32. Nei Vecchi e i giovani, persiste il proposito di riprodurre la molteplicità dei punti di vista che dividono i membri della famiglia Laurentano, ma la voce narrante risulta combattuta solo fra due diversi canoni mentali. Da un lato si colloca il vecchio don Cosmo, che ha compreso la vanità del mondo e soffre la sua disillusione, dall'altro si posiziona il giovane Lando, teso al superamento degli ideali storicamente falliti. Col Gattopardo si assiste ad una semplificazione degli equivoci messi in luce nei due precedenti romanzi. Infatti, il racconto si focalizza su un unico personaggio protagonista, il principe di Salina, il cui pessimismo storico-esistenziale viene tradotto, a livello pragmatico, dall'attivismo del giovane deuteragonista Tancredi. Nel descrivere e criticare gli aspetti socio-culturali della loro terra, i tre letterati siciliani si approcciano in maniera differente al medesimo argomento: De Roberto sfida apertamente l'opinione pubblica; Pirandello, nella sua polemica, cerca di trovare comunque un compromesso attraverso un coinvolgimento del lettore medio; in Lampedusa scompare il motivo dell'offesa per lasciare spazio a una maggiore gratificazione dei destinatari. Dal punto di vista dell'intreccio narrativo, le tre opere si presentano segmentate in tre parti da altrettante date storiche importanti: la proclamazione del regno unito, la presa di Roma e le prime elezioni a suffragio allargato in De Roberto; le elezioni parlamentari del 1893, lo scandalo della Banca Romana e l'insurrezione dei Fasci siciliani in Pirandello; lo sbarco dei Mille, il plebiscito unitario e lo scontro di Aspromonte in Lampedusa. Ma, essendo l'intero progetto strutturale sorretto dalla polemica ideologica, questi avvenimenti non vengono mai analizzati in profondità né descritti in maniera tale da rendere evidente gli effetti che essi realmente ebbero sulla collettività nazionale. In altre parole, fanno solo da sfondo alla narrazione, costituiscono solo i punti di riferimento che permettono di mettere in luce le reazioni comportamentali dei personaggi, i quali, per motivi diversi, non vengono mai presentati come degli eroi, neanche come capita al protagonista manzoniano Renzo durante i tumulti milanesi. Sarebbe comunque riduttivo pensare che questi personaggi assumano un atteggiamento passivo di fronte alla minaccia della realtà storica. Anzi, è proprio la determinazione e la volontà di chi, ottenuti prestigio e potere, cerca di difendere la propria supremazia a costituire la vera spinta delle tre macchine romanzesche. A tale scopo, per l'aristocratico, che sia un Uzeda, un Laurentano o un Salina, la via da intraprendere è sempre la stessa: accettare il regime liberaldemocratrico, appropriarsene le conquiste, strumentalizzarle al proprio tornaconto. Nei Viceré il vecchio riesce con facilità a contrastare e a battere il nuovo; nei Vecchi e i giovani il nuovo ordinamento borghese sembra prevalere, ma al contempo se ne dimostra l'inconsistenza e il fallimento, dando la possibilità agli esponenti più capaci della vecchia classe aristocratica di rimettersi in gioco e di inserirsi nel nuovo assetto sociale; nel Gattopardo infine si assiste a una sconsolata constatazione della fine di un'epoca, accompagnata però dalla consapevolezza che la costituzione di un nuovo ordine non produce nessun cambiamento sostanziale rispetto al passato. Gli epiloghi derobertiano e pirandelliano sono contrassegnati da una paradossalità amara, che rende percepibile il sentimento di decadenza che investe la specie umana. In questo senso però i due autori si distinguono per una differenza che riguarda la struttura del romanzo. In De Roberto aleggia infatti un'idea ciclica della storia antropologica, per cui, dopo aver assistito al decadimento di un mondo, si ritorna al rinnovamento, alla rigenerazione. Per questo motivo, il libro viene ad assumere una duplice struttura. Da un lato, seguendo uno schema di tipo annalistico, varie linee d'intreccio approdano simultaneamente ad una totale degradazione morale; dall'altro, la scena concede sempre più spazio ai quei personaggi che si inseriscono nel nuovo ordine sociopolitico, finché i riflettori sono puntanti esclusivamente su colui che ripristinerà il prestigio e il potere della famiglia Uzeda, Consalvo. Nei Vecchi e i giovani di Pirandello invece tutti i segmenti narrativi, indistintamente, convergono al totale fallimento in maniera unidirezionale. Nonostante l'utilitarismo machiavellico dell'imprenditore Flaminio Salvo, che tenta di dominare la realtà ordendo od ostacolando progetti matrimoniali, la vita umana viene inevitabilmente condizionata dall'indomabilità del caso. L'esito dovrebbe essere quello di una catastrofe ancora maggiore, dovrebbe produrre ancor più smarrimento che nei Viceré: in realtà Pirandello, attraverso la figura di Lando, lascia ancora spazio alla speranza. L'ultimo romanzo della triade, Il Gattopardo, rispetto ai primi due, mostra una più profonda congruenza. Gli avvenimenti storici, come i fatti privati, sono svalutati in favore di una maggiore rilevanza attribuita alla dimensione della coscienza del protagonista Fabrizio, che rivela la vanità dei fenomeni mondani e l'amara verità di un destino fallimentare che accomuna tutti, dominatori presenti, passati e futuri. Con il romanzo di Lampedusa si passa così dalla complessità ramificata dell'intreccio ad una struttura romanzesca più semplice. Il continuum discorsivo è spezzato da nette cesure che permettono di evidenziare la crescita spirituale del protagonista, riducendo al contempo la materia narrativa ad una serie di singole occasioni. Don Fabrizio giunge alla consapevolezza che non è solo il suo ceto d'origine a declinare verso la degenerazione, ma l'umanità intera, depauperandosi dei valori etici di cui in altri tempi è stata detentrice. Un ultimo significativo confronto può essere istituito con l'opera verghiana. Infatti la precarietà degli sforzi e l'inevitabile sconfitta di chi tenta la scalata sociale era già emersa nel Mastro don Gesualdo, in cui il protagonista pensa di aver raggiunto il suo scopo attraverso il matrimonio con una donna aristocratica. Allo stesso modo, nella triade, la rivalità tra i due ceti sociali si risolve in una ricerca d'intesa, che si concretizza in una serie di patti matrimoniali, attraverso cui le famiglie borghesi possono rinnegare le loro umili origini, separarsi definitivamente dai ceti popolari e legittimarsi come classe dirigente. Il Gattopardo, tra i tre, è il romanzo in cui il connubio tra i due mondi si realizza al meglio: la borghesia si rende aristocratica e l'aristocrazia s'imborghesisce, a favore di un comune interesse che aspira al cambiamento solo per sancire l'immobilità, che porta entrambi i soggetti a utilizzare la democrazia politica come argine contro la democrazia sociale. Negli altri due romanzi invece il tentativo della classe media di assimilarsi alla nobiltà si presenta destinato a fallire sin dall'inizio. Nei Viceré gli aristocratici dimostrano maggior superiorità e spietatezza rispetto ai borghesi nella strenua ed esclusiva difesa dei propri interessi: l'avvocato Giulente riesce sì a sposare Lucrezia, ma non verrà mai trattato come un vero esponente della famiglia Uzeda, che lo considererà sempre un inferiore. Nei Vecchi e i giovani si assiste alle manovre dell'imprenditore Salvo nell'intento di sancire le nozze tra la figlia Dianella e il principe Lando, ma con l'unico risultato di farla impazzire. In questo caso è il prestigio dell'aristocrazia, a contatto col ceto borghese, a venir meno, ma dal punto di vista morale essa conferma comunque la propria superiorità. FRANCESCA SCUVERA BIBLIOGRAFIA Testi Edizione di riferimento: De Roberto, F., Romanzi, novelle e saggi, a cura di Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori, 1993 De Roberto, F., I Viceré, introduzione di Vittorio Spinazzola, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, Oscar classici Mondadori, 1991 De Roberto, F., L'Imperio, a cura di Carlo A. Madrignani, Milano, Mondadori, 1981 (prima ed. Milano, Mondadori, 1929) Bibliografia critica Baldacci, L., Il "mondo" in Federico De Roberto, in Letteratura e verità. Saggi e cronache sull'Otto e sul Novecento italiani, Milano - Napoli, Ricciardi, 1963, pp. 89-103. Briganti, A., Il parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento, Firenze, Le Monnier, 1972. Dai Prà, S., Federico De Roberto tra naturalismo ed espressionismo: lo stile della provocazione, Palermo, Istituto siciliano di studi politici ed economici, 2003. Di Grado, A., La vita, le carte, i turbamenti di Federico De Roberto, gentiluomo, Catania, Biblioteca della Fondazione Verga, 1998. Madrignani, C., Illusione e realtà nell'opera di Federico De Roberto: saggio su ideologia e tecniche narrative, Bari, De Donato, 1972. Maffei, G., De Roberto e il valore dell'"esattezza", in La civile letteratura. Studi sull'Ottocento e il Novecento offerti ad Antonio Palermo, I, L'Ottocento, Napoli, Liguori, 2002, pp. 319-40. Spinazzola, V., Federico De Roberto e il Verismo, Milano, Feltrinelli, 1961. Spinazzola, V., La provocazione mancata dei Viceré, in Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990, pp. 51-146. Strumenti GDLI: Grande Dizionario della Lingua Italiana, diretto da Salvatore Battaglia (poi da Giorgio Barberi Squarotti), Torino, UTET, 1961-2002. GRADIT: Grande Dizionario Italiano dell'Uso, diretto da Tullio De Mauro, Torino, UTET, 1999. Luigi Pirandello: I vecchi e i giovani Corso di Letteratura -b (c. p.) Carla Biasini (Università di Zurigo) -b (c. p.) Carla Biasini (Università di Zurigo) Prof.ssa Carla Riccardi Saffia Shaukat (Università di Losanna) III e IV trimestre Anno 2008/2009Università degli studi di Pavia Il racconto storico: dalle teorie manzoniane alla narrazione realista ottocentesca Indice 1. Introduzione: Pirandello narratore dalle origini veriste all'Umorismo _______________ 3 2. L'opera I vecchi e i giovani ______________________________________________________ 4 2. 1 Le edizioni e la stesura dell'opera __________________________________________________4 2.2 Le differenze tra le edizioni: la struttura esterna ______________________________________7 2.3 La vicenda _______________________________________________________________________8 3. La lingua di Pirandello_______________________________________________________ 13 4. La critica: ricezione del romanzo I vecchi e i giovani _______________________________ 14 5. Il romanzo I vecchi e i giovani nella poetica di Pirandello __________________________ 15 5. 1 La dimensione "antistorica": uno strumento borghese per criticare la società del progresso: il romanzo antistorico_________________________________________________________________15 5.2 l'Umorismo e la filosofia del lontano _______________________________________________17 6. Conclusione: Pirandello ed il contesto europeo __________________________________ 19 7. Bibliografia_________________________________________________________________ 21 8. Appendice _________________________________________________________________ 22 1. Introduzione: Pirandello narratore dalle origini veriste all'Umorismo L'attività narrativa di Pirandello si colloca tra un primo periodo artistico dedicato principalmente alla poesia, al quale risalgono le raccolte poetiche Mal giocondo del 1889 e Pasqua di Gea del 1891, e l'impegno nella scrittura teatrale che prende avvio, dopo alcune prove che risalgono già agli anni '10, nel 1916-17. Anche se l'esordio della narrativa pirandelliana viene fatto coincidere con la stesura del racconto Capanetta del 1884, è soltanto nel 1892, anno in cui si stabilisce a Roma dove conosce Luigi Capuana, che Pirandello comincia a dedicarsi seriamente alla scrittura di novelle e romanzi partendo dall'esperienza verista.1 L'anno dopo in una vacanza a Monte Cavo nei dintorni di Roma Pirandello comincia a scrivere il suo primo romanzo Marta Ajala che viene pubblicato in volume nel 1901 con il titolo L'esclusa. L'anno prima della pubblicazione de I vecchi e i giovani sulla "Rassegna contemporanea" esce oltre al saggio L'umorismo anche la seconda edizione dell'Esclusa alla quale Pirandello fa precedere una lettera dedicatoria allo stesso Luigi Capuana dove attira l'attenzione dei lettori sul fatto che "sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone" si riscontra un "fondo essenzialmente umoristico" (GANERI 2001: 14n). Con questa dedica Pirandello potrebbe esprimere "un debito di riconoscenza a chi gli aveva fatto scoprire la vocazione narrativa" (BORSELLINO 1980: 24), ma potrebbe anche manifestare la necessità di intervenire sul modo di lettura del suo primo romanzo per dare rilievo al merito che i lettori e la critica gli hanno finora negato. Infatti, come si dimostrerà parlando della fortuna critica del romanzo I vecchi e i giovani (v. sezione 3), a prescindere dal successo de Il fu Mattia Pascal, tutti gli altri romanzi di Pirandello come L'esclusa, Il turno, I vecchi e i giovani e Suo marito vengono o ignorati o stroncati dalla critica che li etichetta come frutto di un attardato naturalismo. È vero che il primo romanzo di Pirandello è d'indiscutibile ascendenza verista per l'ambientazione siciliana e, per quanto riguarda la prima stesura, per il titolo (v. sezione 2.2), ma già in questo caso si notano molti elementi narrativi che rimandano all'Umorismo: la protagonista Marta, infatti, che è innocente, viene paradossalmente cacciata di casa dal marito Rocco Pentàgora e poi riaccolta dallo stesso proprio nel momento in cui si è fatta colpevole. Inoltre, le vicende degli uomini non sono più determinate dal destino come nella concezione naturalista, ma dal caso, in quanto l'affermazione iniziale di Antonio Pentàgora2, padre di Rocco, secondo il quale il tradimento delle donne è "destino", uno "stemma di famiglia" viene ribadita dal fatto che la lettera del presunto tradimento, 1 Nonostante Pirandello si cimenti "nell'arte narrativa in prosa" soprattutto tra il 1892 e il 1916, in realtà l'autore non abbandona mai del tutto questa dimensione della scrittura. Il racconto Effetti d'un sogno interrotto, infatti, pubblicato sul "Corriere della Sera", reca la data dell'8 dicembre 1925, due giorni prima della sua morte, cfr. LAURETTA (1980: 247-88). 2 Il nome Pentàgora significa in chiave umoristica 'cinque corna'. indirizzata dal deputato Gregorio Alvignani a Marta, giunge al marito accidentalmente. Vi figurano anche i temi della follia, del riso e della vecchiaia, temi questi ultimi "umoristici per eccellenza che attraverseranno ossessivamente l'intera opera di Pirandello, a partire del primo romanzo" (GANERI 2001: 27). In effetti, già il conflitto tra Rocco e Antonio Pentàgora riecheggia il tema del contrasto tra le generazioni de I vecchi e i giovani: il fatto che Rocco non escluda Marta per tutta la vita, come fa invece il padre Antonio con sua moglie, simboleggia il contrasto tra l'autoritarismo dei padri e il desiderio di rottura della generazione giovane, nata in un ambiente politico-sociale alieno alla morale severa dei vecchi. La differenza tra i due romanzi consiste però nella diversa elaborazione della tematica; in I vecchi e i giovani infatti il discorso della differenza generazionale si riferisce non solo al piano privato ma anche a quello storico-politico. figurano anche i temi della follia, del riso e della vecchiaia, temi questi ultimi "umoristici per eccellenza che attraverseranno ossessivamente l'intera opera di Pirandello, a partire del primo romanzo" (GANERI 2001: 27). In effetti, già il conflitto tra Rocco e Antonio Pentàgora riecheggia il tema del contrasto tra le generazioni de I vecchi e i giovani: il fatto che Rocco non escluda Marta per tutta la vita, come fa invece il padre Antonio con sua moglie, simboleggia il contrasto tra l'autoritarismo dei padri e il desiderio di rottura della generazione giovane, nata in un ambiente politico-sociale alieno alla morale severa dei vecchi. La differenza tra i due romanzi consiste però nella diversa elaborazione della tematica; in I vecchi e i giovani infatti il discorso della differenza generazionale si riferisce non solo al piano privato ma anche a quello storico-politico. 2. L'opera I vecchi e i giovani 2. 1 Le edizioni e la stesura dell'opera La pubblicazione del romanzo I vecchi e i giovani è annunciata da Pirandello in una lettera del 18 dicembre 1908 all'amico Ugo Ojetti nella quale afferma che "il mese venturo, intanto, la "Rassegna contemporanea" comincerà a pubblicare "I vecchi e i giovani [...]".3 Il testo esce, infatti, a puntate in appendice alla "Rassegna Contemporanea" tra gennaio e novembre dell'anno seguente, ma la pubblicazione si ferma al primo paragrafo del IV capitolo della II parte della versione in volume (fino a "Vide solo le sue medaglie lì per terra calpestate.") L'edizione completa in volume con i tre ultimi capitoli ancora manoscritti sarebbe dovuta uscire già nel 1910, come si può ricavare da un'altra lettera scritta direttamente all'editore prescelto Carabba: Se Ella accetta -com'io credo -il cambio potrò mandarLe subito il romanzo, parte negli estratti della "Rassegna contemporanea", parte manoscritto, perché tre capitoli vi sono inediti affatto, aggiunti da me per dare maggior sviluppo e maggior efficacia alla conclusione. L'editore Carabba però non accetta la proposta di Pirandello e solo nel 1913 esce l'edizione completa in due volumi presso l'editore Treves di Milano. Rispetto alla prima versione del 1909, oltre all'aggiunta della dedica "ai miei figli, /giovani oggi / vecchi domani" e dei tre capitoli finali ritenuti così importanti da parte di Pirandello, si nota che i paragrafi sono contrassegnati con dei titoli. La prima pagina di un manoscritto dell'opera, pubblicata nel 1938 nell'Almanacco letterario Bompiani, testimonia però che tra la prima versione del 1909 e 3 Le testimonianze epistolari di questa sezione sono citate nell'introduzione di A. Nozzoli a I vecchi e i giovani, cfr. NOZZOLI (1992: VII-XXVIII) quella di Treves del 1913 vi è una fase intermedia di rielaborazione. Un'altra lettera del 1912-1913, la famosa Lettera autobiografica, dimostra che Pirandello l'anno prima della pubblicazione dell'opera ("Ora attendo a compiere il vasto romanzo I vecchi e i Giovani") rimaneggia ancora il testo e che contemporaneamente continua la stesura del romanzo Moscarda, uno, nessuno e centomila, cominciata già nel 1910. Nell'edizione definitiva del 1931 presso Mondadori, "completamente riveduta e rielaborata dall'Autore", sulla quale sono esemplate tutte le successive ristampe, Pirandello attua nuovamente dei cambiamenti radicali, tra cui l'eliminazione di tutti i sessanta titoli della versione di venti anni prima. vi è una fase intermedia di rielaborazione. Un'altra lettera del 1912-1913, la famosa Lettera autobiografica, dimostra che Pirandello l'anno prima della pubblicazione dell'opera ("Ora attendo a compiere il vasto romanzo I vecchi e i Giovani") rimaneggia ancora il testo e che contemporaneamente continua la stesura del romanzo Moscarda, uno, nessuno e centomila, cominciata già nel 1910. Nell'edizione definitiva del 1931 presso Mondadori, "completamente riveduta e rielaborata dall'Autore", sulla quale sono esemplate tutte le successive ristampe, Pirandello attua nuovamente dei cambiamenti radicali, tra cui l'eliminazione di tutti i sessanta titoli della versione di venti anni prima. Questa lunga e curata storia dell'edizione de I vecchi e i giovani fra le cui fasi si collocano numerosi ripensamenti, cambiamenti di strutture, modificazioni della trama e dei titoli, non rappresenta un caso singolare nella scrittura romanzesca di Pirandello, ma concerne tutti i romanzi dello scrittore (v. tabella 2 in appendice). È perciò utile riportare alla memoria un'osservazione fatta dalla studiosa Ganeri in merito ai tempi della stesura dell'Esclusa che però è valida anche per gli altri romanzi: "la molteplicità delle stesure e la lunga fase di redazione [dell'Esclusa], come del resto accade anche per gli altri romanzi, diventano fattori essenziali per l'interpretazione del testo" (GANERI 2001: 14). Per l'interpretazione del romanzo dovranno di conseguenza essere presi in considerazione oltre alla stesura, a cui ci dedicheremo fra un istante, anche i cambiamenti più indicativi tra le varie edizioni, ovvero l'aggiunta dei tre capitoli finali e le modificazioni dei titoli interni. Mentre per il percorso editoriale del romanzo possediamo molti documenti e testimonianze epistolari, i modi e i tempi della stesura sono più difficili da ripercorrere. Questa difficoltà è in stretto rapporto con il modo di lavorare di Pirandello; con il "riciclaggio" dei propri materiali, il rimaneggiamento continuo dei testi e con l'intercomunicazione tra i diversi generi che si osserva innanzitutto tra il romanzo, la saggistica e la pubblicistica critica, ma anche tra il romanzo e le novelle. Per usare le parole precise di Ganeri: "non è proficuo considerare i romanzi di Pirandello come opere autonome e finite" ma è invece "utile e opportuno valutarle come tasselli strettamente collegati di un aperto e attivo work in progress" (GANERI 2001: 15). Per dare un esempio di riciclaggio dei materiali consideriamo brevemente alcune tracce tematiche del nostro romanzo che sono presenti anche in numerose novelle scritte attorno al 1902-1904. Innanzitutto riscontriamo numerose anticipazioni del personaggio garibaldino Mauro Mortara nelle novelle Lontano del 1902 e Le medaglie del 1904. Il tema del garibaldino disilluso con le medaglie sul petto è ben presente persino nella novella Sole e ombra del che risale al 1896. La novella Pianto segreto del 1903 invece anticipa il nome Francesco d'Adria che sarà mutato ne I vecchi e i giovani in Francesco d'Atri. La scrittura più intensa a I vecchi e i giovani è però da collocare intorno al 1906-1908. Gli stimoli principali per la stesura del romanzo sono probabilmente da ricercare nella politica di questi anni e anche in ragioni autobiografiche: siamo negli anni in cui Giolitti avvia "l'alleanza tra liberalismo progressista e socialismo riformista [...] alimentando nella borghesia intellettuale del Mezzogiorno un senso profondo di frustrazione impotente, di sfiducia nello Stato, di diffidenza nei confronti delle forze politiche in campo". Molti intellettuali, infatti, sono delusi degli esiti del governo liberale che, pur avendo abbandonato la politica repressiva e protezionistica del governo di Crispi, non ha potuto risolvere la crisi di fine secolo. Secondo il critico Masiello, nel romanzo questo "tempo di composizione o piuttosto della focalizzazione del racconto" si sovrappone al "tempo della storia raccontata" (MASIELLO 1992: 74-6). Accanto allo stimolo politico è da chiamare in causa anche il fattore socioeconomico, ovvero l'aggravamento delle condizioni dei solfatari siciliani nei primi anni del Novecento che potrebbe costituire un dato parallelo alla rivolta dei Fasci trattata nel romanzo. I vecchi e i giovani nasce quindi come "denuncia del quadro storico e sociale contemporaneo" (NOZZOLI 1992: XXI). ricercare nella politica di questi anni e anche in ragioni autobiografiche: siamo negli anni in cui Giolitti avvia "l'alleanza tra liberalismo progressista e socialismo riformista [...] alimentando nella borghesia intellettuale del Mezzogiorno un senso profondo di frustrazione impotente, di sfiducia nello Stato, di diffidenza nei confronti delle forze politiche in campo". Molti intellettuali, infatti, sono delusi degli esiti del governo liberale che, pur avendo abbandonato la politica repressiva e protezionistica del governo di Crispi, non ha potuto risolvere la crisi di fine secolo. Secondo il critico Masiello, nel romanzo questo "tempo di composizione o piuttosto della focalizzazione del racconto" si sovrappone al "tempo della storia raccontata" (MASIELLO 1992: 74-6). Accanto allo stimolo politico è da chiamare in causa anche il fattore socioeconomico, ovvero l'aggravamento delle condizioni dei solfatari siciliani nei primi anni del Novecento che potrebbe costituire un dato parallelo alla rivolta dei Fasci trattata nel romanzo. I vecchi e i giovani nasce quindi come "denuncia del quadro storico e sociale contemporaneo" (NOZZOLI 1992: XXI).4 La stesura del romanzo si arresta nell'anno cruciale 1908 per i due saggi Arte e scienza e L'umorismo scritti in vista del concorso a cattedra presso l'Istituto di Magistero di Roma in un anno di lavoro accanito. Lo attesta una lettera a Massimo Bontempelli del 29 marzo 1908: Le manderò fra qualche giorno un mio volume di saggi intitolati Arte e scienza, fatica particolare in vista del concorso o per la promozione. Un altro ne manderò a stampa a maggio su L'Umorismo.[...] Ma che miserie, che miserie, che miserie, caro Bontempelli! Non respiro più, dacirca da un anno. Ho dovuto metter da parte il romanzo a cui attendevo e non tener conto ditutte le richieste di novelle che mi vengono da tante parti. Che il romanzo è da collegare, come avremo modo di constatare nella seconda parte del presente lavoro (v. 5.2), al concetto dell'Umorismo, è indubitabile e ciò è stato messo a fuoco già da Salinari nel 1957 (ora in SALINARI (1989). Dopo l'edizione del 1913 si verifica nuovamente un'interruzione lunga, anche se già negli anni venti viene approntata una riedizione. La revisione del romanzo è stata presumibilmente rallentata dalla mancanza di motivazione di Pirandello dovuta al fatto che gli avvenimenti storici sono già molto lontani e che dopo il '16/'17 il suo impegno intenso nella drammaturgia predomina sugli altri generi. In seguito si accennerà, prendendo in considerazione la struttura de I vecchi e i giovani, al significato dei cambiamenti effettuati nella lunga storia di redazione del romanzo per poi passare alla trattazione dell'importanza dei tre capitoli aggiunti nell'edizione del. 4 A questo proposito Riccardo Scrivano sostiene un'altra posizione. Per il critico infatti appare piuttosto "difficile che [Pirandello] collegasse pienamente il tempo in cui stava scrivendo con quello di cui stavascrivendo". La situazione dell'epoca giolittiana apparirebbe completamente diversa in quanto la rottura tra l'intellettuale e la realtà sociale e politica non è più sentita così drasticamente come negli ultimi anni dell'Ottocento, cfr. SCRIVANO (1995: 131-2). 2.2 Le differenze tra le edizioni: la struttura esterna Come già accennato, in I vecchi e i giovani si assiste ad un cambiamento della titolatura interna: alla prima edizione in volume del 1913 Pirandello introduce ben 60 titoli di paragrafi che scandiscono i 16 capitoli del romanzo storico in varie parti asimmetriche. Nell'edizione del 1931 i 60 titoli vengono soppressi e l'opera compare nella perfetta simmetria di due parti bipartite in otto capitoli con numerazione romana. 5 Al posto dei paragrafi sono aggiunti degli spazi tipografici bianchi. Il cambiamento dei titoli non si limita soltanto al romanzo in questione, ma caratterizza, come già accennato, anche il titolo del primo romanzo pirandelliano che è stato modificato da Marta Ajala a L'esclusa. Questa modifica indica la preferenza di un titolo non naturalista dato che i romanzi naturalisti portano spesso il titolo del protagonista (come ad esempio Nanà di Émile Zola del 1880, Giacinta di Luigi Capuana del 1879, I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga del 1881 e del 1889), a differenza invece di quelli "moderni" che contengono nel loro titolo l'indicazione del "nodo narrativo" (CAPPELLO 1986: 55n3).6 In I vecchi e i giovani invece, "la neutrale successione numerica" che è stata adottata "da quasi tutti i romanzieri "storici" e "realistici" [...]", riallaccia il romanzo alla tradizione ottocentesca e conferisce all'opera quella "continuità oggettiva, storica e naturaliter cronologica" (MAZZACURATI 1987: 312-3) che in realtà essa non ha.7 È probabile che nei venti anni che dividono la prima redazione (1909) da quella definitiva (1931) Pirandello abbia percepito "la difficile omologabilità tra i due "generi" [romanzo-saggio] in cui si era esercitato e la relativa non pertinenza, rispetto alla linea del "romanzo storico", di quei sottotitoli che frantumavano [...] il ritmo e la fluidità della narrazione, isolando [...] gli episodi e dando loro un rilievo eccessivo, cioè soggettivo e umoristico [...]" (MAZZACURATI 1987: 313n). In estrema opposizione alla numerazione romana Pirandello applicherà la frantumazione umoristica al suo ultimo romanzo Uno, nessuno e centomila che su un totale di circa 160 pagine è diviso in otto libri per un insieme di 63 capitoli intitolati, cfr. MAZZACURATI (1987: 314). L'eliminazione dei titoli interni rafforza inoltre il valore del titolo principale che, in seguito alla soppressione dei segnavia della lettura rappresentati dai titoli di paragrafo, 5 La suddivisione per sequenze numeriche semplici rispecchia anche un residuo della frequente pubblicazione "a puntate", cfr. MAZZACURATI (1987: 314-5). 6 Nelle diverse redazioni di Suo marito e Si gira invece si assiste ad un cambiamento di titolo che, da un punto di vista formale, da un titolo "moderno" passa ad un titolo "naturalista" diventando Giustino Roncello nato Poggiolo e Quaderni di Serafino Gubbio operatore (v. tabella 2 in appendice), ma di certo "non siamo [...] in presenza di residui naturalistici". Si tratta di titoli "antifrastici che contribuiscono a mettere in risalto la ristrutturazione dei generi perseguita da Pirandello" (CAPPELLO 1986: 57). 7 I numeri romani dei capitoli sono presenti anche nei primi romanzi pirandelliani, nell'Esclusa e in Il turno,e in seguito anche in Quaderni di Serafino Gubbio operatore. eredita la semantica dell'intero libro, cfr. CAPPELLO (1980: 58-63). La dedica "ai miei figli, giovani oggi vecchi domani", aggiunta solo alla versione del 1913, rileva ulteriormente con gli stessi termini del titolo principale, l'importanza di quest'ultimo. CAPPELLO (1980: 58-63). La dedica "ai miei figli, giovani oggi vecchi domani", aggiunta solo alla versione del 1913, rileva ulteriormente con gli stessi termini del titolo principale, l'importanza di quest'ultimo. 8 Su questo aspetto però ci soffermeremo nel prossimo paragrafo dedicato all'analisi della vicenda. Nella struttura esterna quindi l'opera vuole presentarsi più vicina ad un romanzo naturalistico che ad un romanzo umoristico e questo rivela un forte proposito di recupero del genere "romanzo storico". In merito allo sfondo storico inoltre Pirandello afferma nella lettera autobiografica che si tratta "della Sicilia dopo il 1870, amarissimo e popoloso romanzo, ov'è ricchiuso il dramma della mia generazione". 2.3 La vicenda La storia del romanzo va dal 22 settembre 1892 al gennaio 1894.9 In questo lasso di tempo, si assiste ad alcuni eventi storici ben precisi: nella prima parte del romanzo viene citata la fondazione dei Fasci a Girgenti nell'ottobre 1892 (VG I, VI 171sgg.) e allo stesso mese risalgono anche le elezioni dei deputati per il parlamento nazionale (VG I, VIII 230sgg.); nella seconda parte, la vicenda si sposta a Roma dove si tiene, circa un anno dopo le elezioni, nel settembre 1893, una seduta preliminare dei "compagni che dovevano recarsi al Congresso socialista di Reggio Emilia" (VG II, II 327sgg.). Poco dopo il deputato Corrado Selmi lascia sconvolto il parlamento, accusato di essere coinvolto nello scandalo della Banca Romana (VG II, IV 380sgg.). Il finale del romanzo, a partire dal quinto capitolo, si ambienta di nuovo in Sicilia, dove si assiste alla repressione dei Fasci nel gennaio del 1894 sotto il governo di Crispi (VG II, VIII). Con questa chiusura circolare del movimento dei Fasci e con la rinuncia della messa in scena dei momenti intermedi della loro storia, Pirandello distrugge sul piano storico-politico ogni possibile sviluppo e ogni maturazione dell'azione, cfr. ALONGE (1972: 63-4). Pirandello evoca questi eventi basandosi non solo sul ricordo diretto, e qui ricordiamo che lui stesso nel 1892 ha vissuto a Roma e che pertanto è legato personalmente ai posti siciliani dove ambienta le vicende, o indiretto (attraverso i racconti di parenti o conoscenti), ma anche su alcune fonti storiche coeve: su due opere di Napoleone Colajanno (Bandi e Parlamento. Fatti, discussioni e commenti del 1893 e Gli avvenimenti di Sicilia e le loro cause del 1894) e su I Fasci e la questione siciliana e Prigonie e processi di Francesco De Luca dello stesso anno.10 Oltre a due personaggi storici, il già citato 8 Per una possibile interpretazione di questo sottotitolo, cfr. SCRIVANO (1995: 117-20). 9 La data degli avvenimenti del primo capitolo del romanzo la si ricava dalla sigla della lettera spedita da Ippolito Laurentano al fratello don Cosmo, ovvero il 22 settembre 1892 (VG, IV 41). La fine del libro coincidecon la repressione definitiva dei Fasci, avvenuta nel gennaio del 1893 (VG, VIII). 10 Le riprese puntuali di alcuni fonti storiche sono state dimostrate da DE MEIJER (1963), SIPALA (1976) e DI Napoleone Colajanni che nel romanzo corrisponde a Spiridione Covazza e Francesco D'Atri che incarna il Crispi, Pirandello attinge più di una volta dalla propria vita per la creazione dei personaggi, e ciò è evidente anche nella scelta dei nomi; Stefano Auriti ricorda infatti il nome del padre e Caterina Laurentano quello della madre (Caterina Ricci Gramitto). D'Atri che incarna il Crispi, Pirandello attinge più di una volta dalla propria vita per la creazione dei personaggi, e ciò è evidente anche nella scelta dei nomi; Stefano Auriti ricorda infatti il nome del padre e Caterina Laurentano quello della madre (Caterina Ricci Gramitto). Le vicende sul piano individuale, fitto di personaggi (nel romanzo agiscono più di 130 personaggi fra i quali 50 hanno un ruolo significativo, cfr. Merola (1994: XXIV), di analessi, prolessi e digressioni possono essere seguite soltanto nei loro filoni principali: il primo filone narrativo racconta le vicende della famiglia Laurentano e comincia con la notizia dell'imminente matrimonio di don Ippolito Laurentano con donna Adelaide Salvo, sorella di Flaminio Salvo, che il capitano Sciarallo deve portare al fratello don Cosmo Laurentano a Valsanià, e si chiude con la fuga della sposa con Ignazio Capolino e quindi con il fallimento della felicità coniugale e con il ritorno di Ippolito nella sua condizione precedente di osservatore nostalgico della Girgenti passata. La tabella sottostante mostra le diverse posizioni politiche e ideologiche dei membri della famiglia Laurentano attraverso le quali è possibile ricostruire i conflitti che caratterizzano le loro relazioni. Tabella 1: I Laurentano cfr. ALONGE (1972: 64-5) Gerlando Laurentano+ antiborbonico autonomista siciliano I vecchidon Cosmo apolitico Valsanìa Ippolitoborbonico legittimistaColimbètra Caterina garibaldina(sposa di Stefano Auriti+) Lando socialista Roberto Auriti -eroe garibaldino -si presenta candidato del governo Giulio Auriti Roma Anna Sicilia I giovaniAntonio del Re anarchico Il conflitto più rilevante, a prescindere da quello tra i fratelli, si verifica tra i genitori e figli, ovvero tra i vecchi ei giovani.I vecchi sono rappresentati dalla generazione risorgimentale di cui il massimo esponente è Gerlando Laurentano, sebbene la sua morte si collochi al di fuori della storia del romanzo. Il suo passato eroico è però evocato dal garibaldino Mauro Mortara che lo celebra con un "santuario della libertà" eretto a Valsanìa. Garibaldina è anche Caterina Laurentano che ha sposato un garibaldino, Stefano Auriti, BELLA (1988). anch'esso morto prima dell'inizio della vicenda; la morte lo ha colpito a Milazzo nel 1860 durante la spedizione dei Mille alla quale aveva partecipato anche il giovanissimo figlio Roberto di soli dodici anni. Caterina vive con la figlia Anna e il nipote Antonio del Re a Girgenti lontano dal fratello Ippolito con cui ha rotto i rapporti a causa delle diverse opinioni politiche e ideologiche. durante la spedizione dei Mille alla quale aveva partecipato anche il giovanissimo figlio Roberto di soli dodici anni. Caterina vive con la figlia Anna e il nipote Antonio del Re a Girgenti lontano dal fratello Ippolito con cui ha rotto i rapporti a causa delle diverse opinioni politiche e ideologiche. Il nipote di Caterina, Antonio del Re, fa parte dei giovani e sostiene l'anarchismo individualista e velleitario. Egli agisce per proteggere l'onore della famiglia nel momento in cui lo zio Roberto Auriti viene arrestato davanti agli occhi di Mauro Mortara11. Roberto infatti è il solo prestanome di Corrado Selmi, il quale ha truffato presso la Banca Romana l'ingente somma di quarantamila lire e Giulio, sebbene voglia aiutare il fratello Roberto, non riesce a trovare in tempo qualcuno che possa rifondere il debito. Antonio del Re si reca in seguito a casa del deputato Corrado Selmi per vendicare lo zio, ma il Selmi che si è avvelenato sta già per morire. Prima del suo suicidio però ha scritto una lettera nella quale dichiara la sua innocenza e salva così Roberto. La notizia dell'arresto di Roberto giunge poco dopo in Sicilia e provoca la morte di Caterina che non verrà mai a conoscenza della scarcerazione del figlio. La candidatura di Roberto Auriti, un altro rappresentante dei giovani che si contrappone alla madre molto attiva e combattiva nella sua gioventù, costituisce l'altro filone narrativo importante e si chiude, come quello del matrimonio di Ippolito e Adelaide, in sé stesso. Roberto sin dall'inizio della sua candidatura sa che da "inetto" com'è (infatti, non si candida per la posizione di deputato di propria volontà ma perché spinto da Crispi) non potrà mai vincere le elezioni nazionali. Sarà invece Ignazio Capolino a riportare la vittoria per il partito clericale grazie all'appoggio del banchiere e proprietario di solfare Flaminio Salvo, nonché dei notabili filoborbonici del paese. Caterina lo ha inoltre sempre incitato a presentarsi non come un candidato del governo pieno di corruzioni, ma come il candidato dell'isola per non svendere gli ideali risorgimentali per i quali ha lottato tutta la vita. Un altro rappresentante dei giovani che scorge una via d'uscita dalla crisi di fine secolo nel socialismo, da lui ritenuto come la ripresa del garibaldismo risorgimentale, di un modo di vita attivo e dinamico come quello del movimento dei Fasci siciliani, è Lando Laurentano. Anch'egli ha volto le spalle al padre e si è trasferito a Roma dove aspetta come Pepè in Il turno, il secondo romanzo di Pirandello, la morte del vecchio sposo (Francesco d'Atri) della giovane cugina Giannetta per poterla prendere in moglie. A differenza di Pepè Lando non riesce a realizzare il suo progetto e Giannetta si darà invece al Selmi da cui avrà un figlio extraconiugale. Questo contruibirà alla sua decisione di non salvare Roberto su richiesta di Giulio Auriti perché altrimenti così salverebbe anche il 11 Proprio con questa scena finisce la pubblicazione sulla "Rassegna contemporanea", v. sezione 2.1. Selmi con cui è sul piede di guerra. Lando diventa nella seconda parte del romanzo quasi il principale rappresentante dei giovani. Egli si accorge di sentirsi estraneo al tempo in cui vive che già "aveva dato il suo frutto" e lui "era venuto a vendemmia già fatta" (VG II, II, 308). n cui è sul piede di guerra. Lando diventa nella seconda parte del romanzo quasi il principale rappresentante dei giovani. Egli si accorge di sentirsi estraneo al tempo in cui vive che già "aveva dato il suo frutto" e lui "era venuto a vendemmia già fatta" (VG II, II, 308).12 Verso la fine del libro inoltre Lando diventa consapevole del fatto che la lotta di classe da lui sempre sostenuta fallisce nei propri intenti per la mancanza di ogni "connessione e saldezza di principii, di sentimenti e di propositi", ma soprattutto perché ai contadini e ai solfatari manca ogni "coscienza" del proprio agire. Approda invece alla soluzione di una "cooperazione delle classi [...] poiché in tutti gli ordini sociali in Sicilia era vivo e profondo il malcontento contro il governo italiano" sin dall'unificazione dell'Italia (VG II, VII 465).13 Molti altri filoni d'azione del romanzo sono ricostruibili grazie a Flaminio Salvo, personaggio quest'ultimo che pensa solo al proprio tornaconto:14 non ha combinato, infatti, soltanto il matrimonio tra la sorella Adelaide e Ippolito Laurentano, ma anche quello tra Ignazio Capolino e Nicoletta Spoto, con la quale ha in seguito mantenuto una relazione amorosa. Nonostante il suo successo economico e la sua posizione sociale di primo piano, la sua vita privata è contrassegnata da eventi tragici come ad esempio la pazzia della moglie Vittoria verificatasi dopo la morte dell'unico figlio maschio. Nei confronti dell'unica figlia Dianella si comporta da padre severo e inflessibile ostacolando così la sua relazione amorosa con l'ingegnere Aurelio Costa, sebbene Salvo gli debba la sua vita. Egli inoltre, affida la figlia a Ninì di Vincentis che la ama di nascosto solo nel momento in cui impazzisce, proprio come fa la madre, dopo la notizia della morte di Aurelio Costa massacrato con Nicoletta Spoto da alcuni infuriati solfatari durante il loro viaggio per la Sicilia.15 Quasi tutti i personaggi principali configurano nell'intermezzo romano, così anche Mauro Mortara che vede le sue attese deluse quando incontra una capitale "tutta imbrattata di fango in quei lividi giorni" (VG, II, II 301). L'intermezzo romano si chiude con il suo intento di rimproverare Lando Laurentanto del mancato aiuto a Roberto, ma nella casa dei Vella che ospitano anche Ignazio Capolino e Flaminio Salvo, deve assistere ad una scena più drammatica, ovvero alla pazzia di Dianella, l'unica persona a cui aveva 12 Questo è uno dei tanti passi che riecheggiano i Promessi sposi di Manzoni (in questo caso si tratta della similitudine della vigna di Renzo nel capitolo XXXIII dei Promessi sposi). 13 Per la tematica siciliana v. sezione 4. 14 I personaggi che non appartengono alla famiglia Laurentano entrano in scena nel capitolo secondo dellaprima parte, dopo esser stati presentati nel primo capitolo con il discorso indiretto libero tramite le riflessioni del capitano Sciaralla che si reca con la lettera da don Cosmo. Questa, infatti, non contiene soltanto la notizia del previsto matrimonio del fratello con Adelaide Salvo, ma anche la domanda di ospitare la famiglia della sposa a Valsanìa. 15 La notizia di questo evento tragico non giunge al lettore tramite una descrizione diretta degli eventi, bensì attraverso un articolo di un giornale che Corrado Selmi acquista durante la sua ultima passeggiata al Gianicolo prima del suicidio. Il suo nome in prima pagina perde così la sua importanza perché comprende "che per esse e nonper lui era uscita quell'edizione straordinaria del giornale" (VG II, IV, 395-6). fatto vedere il "santuario della libertà". L'ultima parte si svolge di nuovo in Sicilia dove ritornano non solo Capolino, Salvo e Dianella, ma anche Lando e Mauro Mortara. Quest'ultimo, dopo aver assistito alla morte di Caterina, nega a Lando e agli altri fuggiaschi del partito socialista il permesso di entrare nella villa di Valsanìa. Ma costretto a cedere al volere di Cosmo Laurentano abbandona la casa e cerca di riunirsi ai soldati inviati sull'isola per dominare la rivolta dei Fasci. I soldati non lo riconoscono con la sua divisa da brigante e con le medaglie sul petto e lo uccidono. La morte del patriota Mauro Mortasa segnala simbolicamente la fine di un'epoca, quella del risorgimento. Da tutte queste vicende traspaiono tre delusioni; per i vecchi come Caterina Laurentano e Mauro Mortasa quella del "Risorgimento come moto generale di rinnovamento" della nazione e, specialmente per Caterina, quella dell'"Unità come strumento di liberazione e di sviluppo delle zone più arretrate, e in particolare della Sicilia e dell'Italia meridionale". Quest'ultima delusione è condivisa anche da Lando Laurentano che vi giunge attraverso la terza disillusione, ovvero quella del socialismo come "ripresa del movimento risorgimentale" (SALINARI 1989: 254). Il libro termina con la ripresa dell'immagine iniziale del fango ("Senza curarsi del fango della strada VG II, VIII, 511), immagine ripresa metaforicamente anche nel primo capitolo della seconda parte, e la certezza già espressa nella prima pagina che l'uomo moderno vive in "un tempo senza vicende", in un tempo che si chiude "nell'abbandono d'una miseria senza riparo". Lo sviluppo dell'azione riflette questo pessimismo sia sul piano storico, sia sul piano individuale in cui le vicende si chiudono circolarmente, come i due filoni narrativi principali, oppure si concludono con la pazzia, la morte o la rassegnazione. Gli eventi raccontati smentiscono dunque la struttura tradizionale chiusa del romanzo ed evidenziano l'importanza dei tre capitoli finali aggiunti da Pirandello nell'edizione del 1913. In questi ultimi capitoli appare non a caso per un'ultima volta il filosofo don Cosmo Laurentano che si fa portavoce della concezione pirandelliana della storia, affermando che tutto questo non "deve concludere". Tutto questo può riferirsi alla storia, all'impianto narrativo del romanzo o all'uomo in quanto tale. Egli inoltre in merito al rapporto tra vita non finita e forma finita, afferma che "bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato [...]" (VG VIII, 510). È interessante rilevare che il tema del non concludere riveste per Pirandello un ruolo molto importante. Basta considerare ad esempio che "non conclude" era nell'edizione del 1913 il titolo del quarto paragrafo del secondo capitolo della seconda parte così come anche è il titolo dell'ultimo capitolo in Uno, nessuno, centomila. Inoltre, Pirandello scrisse un saggio omonimo pubblicato a metà agosto del 1909 su "La Preparazione".16 In questo scritto l'autore afferma a proposito della conclusione:17 "Il giusto e l'ingiusto, l'ingenuo e il furbo, il prudente e il temerario, tutti vi trovano la stessa fine e nessuno trionfa, tranne il caso". Ed è proprio questo che accade nel romanzo storico I vecchi e i giovani dove tutti trovano la stessa fine. Pirandello avvia con questo saggio un nuovo tipo di romanzo che si allontana dal modello tradizionale dando così "l'autorizzazione ad aprire il percorso [...] [chiuso] dei romanzi e dei cicli naturalistici [...]; ad inaugurare una narrazione aperta, centrifuga[...]; ad aprire un dossier romanzesco, da cui sottrarre e aggiungere periodicamente i più eterogenei materiali" (MAZZACURATI 1995: 353-6). 18 3. La lingua di Pirandello La questione della lingua rimane per Pirandello un problema centrale. Il suo impegno si riflette negli scritti sul tema: dalla tesi di fonologia a Bonn ai diversi saggi che Pirandello scriverà. (Prosa moderna, 1890 - Per la solita questione della lingua, 1890 - Teatro siciliano, 1909 - Teatro e letteratura, 1918). Assistiamo infatti in Pirandello ad una alternanza tra dialetto e lingua italiana. È proprio questa alternanza a testimoniare la volontà a non rinunciare a ciò che è vivo nel dialetto, e, al contempo, ad avere un pubblico più vasto che lo possa capire, un pubblico che non sia solo siciliano, regionale, dialettofono. Pirandello si appropria dunque di una lingua nuova di mediazione fra italiano e dialetto. Il lessico usato è raffinato, ma anche ricco di elementi gergali, dialettali. È nella sintassi invece che si rivela il punto di forza di Pirandello. Essa è agile, vicina al parlato (pensiamo qui alla carriera di drammaturgo) e le tendenze dialogiche permettono di riprodurre le gestualità dei parlanti. Se osserviamo per un attimo i giudizi della critica riguardo alla lingua pirandelliana possiamo notare dei pareri discordanti. Contini, ad esempio, ne evidenzia l'aspetto neutro, medio borghese, scolorito. La lingua pirandelliana appare dunque per questo critico priva di ogni espressività. Al contrario, Tozzi, citato nel saggio di Luperini nel 1990, sottolinea come Pirandello adoperi le parole "di traverso", senza "alcun riguardo". Da qui derivano neologismo di tinta espressionistica, forme 16 È lecito pensare che il titolo sia passato dal saggio al cap. VIII della seconda parte de I vecchi e i giovani(questo soltanto se il romanzo non fosse già avanzato da includere anche il capitolo ottavo) o che da I vecchi e i giovani il Leitmotiv si sia esteso al saggio e in seguito ad altri lavori (alla novella Leviamoci questo pensiero, a Quando s'è capito il gioco del 1913 e al romanzo Uno, nessuno e centomila). 17 A Pirandello fu chiesto di riempire le rare colonne di "varia" della rivista "La Preparazione". Lo fece, nel1909, con tre "colloqui" e un saggio (Non conclude). I tre colloqui sono, sotto il titolo generale di Da lontano: Presentazione, in "La Preparazione", I, n. 5, febbraio 1909; Femminismo, id., n. 12, febbraio 1909; Ricomincio a veder l'Europa, I, n. 33, aprile 1909. Questi sono raccolti anche in Pirandello, L., Saggi, poesie e scritti vari, cit. pp. 1064-75. Il saggio Non conclude esce sul n. 82 di "La Preparazione" tra il 17-18 agosto 1909 e non è contenuto nella raccolta dei saggi. È però riprodotto direttamente in MAZZACURATI (1995: 353-6). 18 Un altro contemporaneo di Pirandello che non conclude i suoi romanzi e che potrebbe costituire uno deimodelli per il nostro autore è Sterne, il quale ha scritto Tristano Shandy che è uno dei suoi libri preferiti. marcate di colloquialità, dialettalismi cromatici. Beccaria, acutamente, vede la potenza della lingua di Pirandello nella sintassi. Essa si trova infatti ad acquistare un ruolo essenziale nella poetica dell'Umorismo in quanto responsabile allo scardinamento del discorso ad al relativismo soggettivo dei punti di vista. Vedremo più particolarmente nei prossimi paragrafi, come la lingua e le diverse tecniche narrative pirandelliane si iscrivono nel sistema poetico dell'autore. della lingua di Pirandello nella sintassi. Essa si trova infatti ad acquistare un ruolo essenziale nella poetica dell'Umorismo in quanto responsabile allo scardinamento del discorso ad al relativismo soggettivo dei punti di vista. Vedremo più particolarmente nei prossimi paragrafi, come la lingua e le diverse tecniche narrative pirandelliane si iscrivono nel sistema poetico dell'autore. 4. La critica: ricezione del romanzo I vecchi e i giovani Il mutamento di gusto che agli insuccessi del Viceré e de I vecchi e i giovani contrappone il successo de Il Gattopardo, si iscrive in un scenario economico e culturale che vede ribaltato l'asse critico dei giudizi sul romanzo storico. Agli inizi del Novecento infatti l'assenza di dibattito teorico intorno al romanzo storico accompagna una svalutazione dei generi letterari. Questa tendenza però non corrisponde ad un clima europeo che vede invece nascere degli studi come quelli di Lukàcs (Il romanzo storico). In questo quadro però il romanzo storico non scompare ma trova uno spazio di vitalità su due strade divergenti: il romanzo siciliano da un parte, che sviluppa, come nel nostro caso, il fallimento risorgimentale attraverso il filtro verista, e, dall'altra, il filone minore dei discriminati, che però non tratteremo in questa sede. L'opera di Pirandello è stata ricondotta all'unanimità al regionalismo siciliano del secondo Ottocento. Per la mancanza delle indagini sui generi letterari, sono pochi gli sguardi che hanno analizzato le eredità della tradizione siciliana e le novità anticipatrici che erano sperimentate nella "fucina" de I vecchi e i giovani del romanzo moderno. Il romanzo fu accolto molto freddamente nel contesto sfortunato che aleggiava intorno a Pirandello fino agli anni Cinquanta. Questo forse anche a causa della polemica con Croce che aveva stroncato L'Umorismo nel 1909 ma anche con Serra o Cecchi. Da segnalare anche il Russo che non aveva inserito il romanzo nella rassegna narrativa di Pirandello. Il silenzio sarà inoltre di Gramsci e Debenedetti fino a quando con il successo di Tomasi da Lampedusa con Il Gattopardo si riscoprirà il romanzo pirandelliano. IL primo saggio che si focalizzerà su I vecchi e i giovani sarà scritto dal Salinari nel 1957.19 Purtroppo durante tutti gli anni Sessanta e Settanta l'opera in questione sarà tenuta in considerazione come un testo che ricade nel filone meridionalista. Questo continuerà anche dopo il cinquantenario delle morte nel 1986 che fece crescere in modo cospicuo la bibliografia critica nei riguardi di questo autore. Sarà Mazzacurati che, invece di fermarsi a degli elementi derivanti dal contesto di formazione dell'autore, porrà in evidenza le influenze del romanzo europeo. 19 Vedi Margherita Ganeri, Pirandello romanziere, Soveria, Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 89. Anche il saggio di Spinazzola si rivela per questa analisi duplice l'unico studio organico: se da un lato viene presa in considerazione il ritorno alla genesi storica (dalla generazione dei vecchi ed il fallimento del Risorgimento ad una meschinità dei giovani), dall'altro non viene dimenticato che Pirandello nella sua opera applica i principi dell'Umorismoda un lato viene presa in considerazione il ritorno alla genesi storica (dalla generazione dei vecchi ed il fallimento del Risorgimento ad una meschinità dei giovani), dall'altro non viene dimenticato che Pirandello nella sua opera applica i principi dell'Umorismo20 e rinnova il genere. 5. Il romanzo I vecchi e i giovani nella poetica di Pirandello 5. 1 La dimensione "antistorica": uno strumento borghese per criticare la società del progresso: il romanzo antistorico All'apparenza un grande romanzo storico, I vecchi e i giovani di Pirandello sembra posizionarsi sulla scia del realismo e del naturalismo Ottocentesco. L'autore sembra impegnato infatti in una ricostruzione storica particolareggiata di un'epoca critica per la Sicilia, suo paese d'origine, attraverso un voluminoso affresco ricco di personaggi, intrecci ed avvenimenti storici. La tipologia del testo è certamente la saga , caricata però di un forte criticismo ironico. Il testo, come lo Spinazzola ci fa notare,21 appartiene alla triade siciliana che prende inizio dai Viceré di De Roberto e si conclude con il successo de Il Gattopardo di Tomasi da Lampedusa. Le tre opere infatti si concentrano sul periodo risorgimentale, post unitario della Sicilia e si focalizzano criticamente (seppur con sfumature differenti) sull'ambiente, la mentalità ed i costumi delle famiglie aristocratiche e borghesi a confronto. Il processo imitativo in atto stimolerà un paradigma di rinnovamento nella continuità22 che contrasta la dissoluzione della funzione di genere letterario in epoca moderna. Pirandello dunque si rifà ad un genere ormai famoso: il romanzo storico come uno scritto misto di storia ed invenzione. La forma narrativa è ormai al finire dell'Ottocento già in declino ma grazie agli sperimentalismi di questi tre autori ritrova vigore per qualche decennio ancora grazie alla naturale apertura alle variazioni esecutive del genere. Una di queste, comune in diversa misura ai tre siciliani, è l'effetto di contemporaneità, che rende le vicende in un contesto polemico attuale grazie all'annullamento prospettico del tempo raccontato del testo. La polemica che impregna l'opera infatti si riflette su di una filosofia totalizzante e universale di sfiducia in ogni ideologia del progresso: qualunque sia l'evoluzione della storia essa non porterà mai ad un miglioramento. Il compito dello scrittore diventa dunque 20Vedremo in seguito più nei dettagli come la sua poetica si inserisce in un'opera apparentemente così lontana dai suoi romanzi "capolavori". 21Spinazzola V., Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, p. 3. 22Spinazzola V., op. cit., p. 5. quello di stimolare un esame di coscienza collettivo riguardo a tutte le diverse dimensioni della vita sociale. L'indagine provinciale dunque si apre ad ambire un valore più universale, ad una critica della società condotta dalla borghesia, ed ancora di più ad una critica della società in generale in cui si muovono solamente egoismi individuali, di clan e di famiglie. L'uso della struttura rappresentativa, dunque, viene capovolto in quanto la funzione del romanzo dei tre siciliani è all'opposto di quella funzione originaria ottimistica di rappresentazione della realtà in progresso. scienza collettivo riguardo a tutte le diverse dimensioni della vita sociale. L'indagine provinciale dunque si apre ad ambire un valore più universale, ad una critica della società condotta dalla borghesia, ed ancora di più ad una critica della società in generale in cui si muovono solamente egoismi individuali, di clan e di famiglie. L'uso della struttura rappresentativa, dunque, viene capovolto in quanto la funzione del romanzo dei tre siciliani è all'opposto di quella funzione originaria ottimistica di rappresentazione della realtà in progresso. Questo risentimento di sicilianità23 deriva dalla tradizione verista che si contraddistingueva in effetti per un febbrile tentativo interpretativo di una società sempre a cavallo tra vecchio e nuovo. Il ritorno però ai veristi di Pirandello fa parte di un progetto consapevole. Pirandello in effetti tenta di recuperare il modello del romanzo storico per attualizzare, per sperimentare, su di una tradizione letteraria ormai collaudata ed in crisi.24 I vecchi e i giovani diventano dunque la possibilità, la fucina di rinnovamento, di un genere antico, malgrado questo si sia infine rivelato un tentativo isolato e per questo non compreso dalla critica per lungo tempo. Il quadro verista di partenza, però, è ribaltato a causa del moltiplicarsi dei punti di vista che indeboliscono la denuncia ed ammorbidiscono l'ironia trasformandola in un'amara riflessione umoristica. Questo ribaltamento si collega strettamente a quella definizione di romanzo antistorico di Spinazzola che sottolinea il paradosso della scelta di una forma narrativa, che cerca da una parte, di raffigurare in maniera totalizzante la realtà pubblica e privata, analizzando la varietà dei rapporti attivi e passivi tra gli individui e le collettività. Dall'altra, al contrario vediamo l'impossibilità, in questo contesto politico e sociale, di chiudere le molteplicità disperse della vita collettiva; questo accade a causa di una Storia che non guida più, che non indica nessuna direzione per orientarsi nel caos delle vicende umane. Da qui la definizione fortunata di Spinazzola di catalogare il romanzo di Pirandello (e degli altri siciliani) come romanzo antistorico. Questa molteplicità di un reale indescrivibile nella sua totalità, si concretizza nel testo attraverso i diversi punti di vista che portano ad un relativismo soggettivo in cui il lettore rischia di perdersi, non cogliendo infatti il significato dell'opera ed il messaggio dell'autore. L'Io narrante infatti tende a partecipare a questa molteplicità di punti di vista e quindi, è da ricostruirsi attraverso una lettura attenta e critica il punto di vista complessivo. 23 Spinazzola V., op. cit., p. 17. 24 Cit. in Ganeri M., op. cit., p, 91. Lo stesso Pirandello indica in verga, Nel discorso di Catania in onore dell'ottantesimo compleanno dell'autore verista, il punto di partenza per delle nuove elaborazioni del romanzo. 5.2 l'Umorismo e la filosofia del lontano Abbiamo appena visto come l'opera di Pirandello sia in realtà distante, se non agli antipodi, del romanzo storico nel suo senso più classico. È ora interessante focalizzarsi su qualche tecnica narrativa dell'autore per riuscire a cogliere in quale modo Pirandello inserisca la sua poetica dell'Umorismo nel suo testo. Articolata intorno alla polemica politica, la narrazione si arricchisce nella sua costruzione di procedimenti narrativi distanzianti. Già dall'inizio del romanzo, infatti, notiamo che l'autore utilizza per presentare i personaggi protagonisti un'angolatura laterale che permette una presa di distanza, un allontanamento straniante25 dalla scena principale. Ciò avviene, nell'incipit della prima parte del romanzo, attraverso l'ottica di un personaggio secondario, il capitano Sciaralla, che non avrà alcun ruolo importante nella scena. Questo meccanismo è anche usato nell'incipit della seconda parte del romanzo: qui sarà il segretario Cav. Cao a descrivere il quadro di corruzione della capitale romana dato dallo scandalo finanziario. Cit. 2 incipit a confronto. Incipit 1, p 7 (...) Dei rari passanti a piedi o su pigri asinelli qualcuno che ignorava come qualmente il principe don Ippolito di Laurentano tenesse una guardia di venticinque uomini con la divisa borbonica nel suo Feudo di Colimbètra, dove fin dal 1860 si era esiliato per attestare la sua fiera fedeltà al passato governo delle Due Sicilie si voltava stupito e si fermava un pezzo a mirare quel buffo fantasma emerso dai velarii strappati di quell'incerto crepuscolo, e non sapeva che pensarne. Passando innanzi allo stupore di questi ignoranti, Placido Sciaralla, capitano di quella guardia, non ostante il freddo e la pioggia ond'era tutto abbrezzato ed inzuppato, si drizzava sulla vita per assumere un contegno marziale; marzialmente, se capitava, porgeva con la mano il saluto a qualcuno di quei tabernacoli; poi, chinando gli occhi per guardarsi le punte tirate sù a forza e insegate dei radi baffetti (indegni baffi) sotto il robusto naso aquilino (...) Ma questi incontri, tanto graditi al capitano, avvenivano molto di rado. Tutti ormai sapevano di quel corpo di guardia a Colimbètra e ne ridevano e s'indignavano. -Il Papa in Vaticano con gli Svizzeri; don Ippolito Laurentano, nel suo feudo con Sciaralla e compagnia! E Sciaralla, che dentro al cinta di Colimbètra si sentiva a posto, capitano sul serio, fuori non sapeva più qual contegno darsi per sfuggire alle beffe e alle ingiurie.... Incipit 2 p. 203 (...) Il Cav. Cao a questo punto tornò a scuotersi come per un brivido alla schiena. Da alcuni giorni era veramente sbigottito della gravità e della tristezza del momento. Tutte le sere, tutte le mattine i rivenditori di giornali vociavano per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento Nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o di quella banca. In certi momenti climaterici, ogni uomo cosciente che sdegni mettersi con gli altri a branco, che fa? Si raccoglie, pondera, assume secondo i propri convincimenti una parte, e la sostiene. Così aveva fatto il Cav. Cao. Aveva assunto la parte dell'indignato e la sosteneva. Non poteva tuttavia negare a se stesso, che godeva in fondo dello scandalo enorme. Ne godeva sopra tutto perché, investito bene dalla sua parte, trovava in sé in quei giorni una facilità di parola che quasi lo inebriava, certe frasi che gli parevano di un efficacia meravigliosa e lo riempivano di stupore e ammirazione. Ma sì , ma sì, dai cieli d'Italia quei gironi pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s'appiastrava da per tutto (...). Diluviava fango; e pareva che tutte le cloache della città si fossero scaricate e che la nuova vita 25 Baldi G., "I vecchi e i giovani: sguardo "da lontano" e "distrazione", in Pirandello e il romanzo. Scomposizione umoristica e "distrazione", Napoli, Liguori, 2006, pp.99-121. nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella fetida alluvione id melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci , il sospetto e la calunnia. Nel romanzo di Pirandello assistiamo ad un'altra singolare caratteristica straniante. In effetti, in un racconto pieno di episodi ed avvenimenti, il lettore ha l'impressione che nulla succeda, che nulla sia in atto. Questo avviene perché ogni fatto viene raccontato come già accaduto e gli avvenimenti sono rievocati dai personaggi e dai narratori. Ogni potenzialità drammatica è ancora una volta dissolta nel rifiuto del romanzesco. Il romanzo è aperto dunque all'indietro nella rievocazione di fatti avvenuti nel passato e in avanti a causa di intrecci non risolti a causa delle morti improvvise dei protagonisti. La distanza del romanzo di Pirandello rende evidente il distacco dalla tradizione realistica e naturalista Ottocentesca. Tutti gli avvenimenti potenzialmente carichi di pathos vengono mediati, allontanati: dall'eccidio di Aurelio Costa e Nicoletta Spoto alla repressione militare dei moti dei Fasci: evento così centrale per tutta la seconda parte del romanzo. Baldi raffronta Pirandello e Zola in modo da dimostrare le due tecniche antitetiche. L'avvicinamento al naturalismo causato dalla materia della narrazione viene evitato anche grazie ad altri elementi quali la polifonia e la molteplicità delle prospettive, che non sono gerarchizzate. L'oggettività storica non è più narrabile se non attraverso le impressioni soggettive dei personaggi. I punti di vista sono autonomi e non lasciano intravvedere il giudizio dell'autore, che, sembra prendere distanza da ogni punto di vista. Da questa situazione emerge l'ipotesi di un pessimismo "desolato", di una situazione storica negativa da qualunque punto di vista la si guardi. L'impostazione molteplice del romanzo nasce dall'atteggiamento umoristico dell'autore che si rifiuta di dare una descrizione unilaterale del mondo ma , al contrario, investiga le ragioni segrete in modo da rendere conto delle molteplici potenzialità di una personalità che si trova raffigurata, nel sistema pirandelliano, scomposta. È l'esempio del personaggio che pare il più monolitico nel suo accanimento capitalistico senza scrupoli. Flaminio Salvi. In un monologo ad Aurelio Flaminio espone contro ogni sospetto l'assenza di senso della vita per lui: Ho comandato! Si ecco: ho assegnato la part a questo e a quello, a tanti che non hanno mai saputovedere altro in che la parte che rappresento per loro. E di tant'altra vita, vita d'affetti e d'idee che is'agita dentro, nessuno che abbia mai avuto il più Lontano sospetto...Con chi vuoi parlarne? Sonofuori dalla parte che devo rappresentare... Dio sa che forza devo dar su di me stesso per nonscoppiargli a ridere in faccia. Mi crederebbe ammattito, per lo meno. Pirandello da una parte cerca di ricostruire il momento storico attraverso la materia dei fatti, la polemica contro le ideologie borghesi e lo sfruttamento della Sicilia dopo l'Unità. Dall'altro però il romanzo si "autocontesta" nella misura in cui non si adegua alle naturali strutture in cui la materia si dovrebbe calare. Queste tensioni interne si spiegano alla fine del romanzo attraverso le parole di Don Cosmo che svelano una filosofia del lontano. Tutti i mali del presente sembrano dunque sprofondare nel passato e diventare insignificanti. Questa filosofia prende dunque corpo nella tecnica rappresentativa del distanziamento che permetto di rendere il relativismo delle posizioni soggettive. on Cosmo che svelano una filosofia del lontano. Tutti i mali del presente sembrano dunque sprofondare nel passato e diventare insignificanti. Questa filosofia prende dunque corpo nella tecnica rappresentativa del distanziamento che permetto di rendere il relativismo delle posizioni soggettive. Questa lontananza che sottolinea l'illusione della vita però non deve spingere all'inazione. È questa ultima osservazione di Don Cosmo a giustificare dunque il romanzo stesso come opera formata da una tangibile materia di più di 400 pagine di polemica. Affannatevi e tormentatevi, senza pensare che tutto questo non conclude. Se non conclude, è segno che non deve concludere, e che è vano dunque cercare una conclusione. Bisogna vivere, cioè illudersi; lasciar giocare in noi il demoniaccio beffardo, finché non si sarà stancato; e pensareche tutto questo passerà...passerà... Ecco che dunque acquistano d'improvviso un senso più preciso gli innumerevoli intrecci non conclusi, perchéè la vita stessa che non conclude. Pirandello stesso, nello scrivere il suo romanzo si illude, oppure usando un altro termine pregno di significato per l'interpretazione pirandelliana, si distrae. Si distrae appunto perché la vita è illusione ed illudersi e l'unica possibilità di vivere. Da qui dunque la struttura paradossale di un romanzo pieno di materia drammatica, di scontri ideologici, di polemiche rappresentate da lontano, da molteplici punti di vista soggettivi. Si esprime attraverso questo tipo di romanzo dunque il compromesso tra lo sdegno per la situazione storica e la consapevolezza umoristica della vanità del tutto. 6. Conclusione: Pirandello ed il contesto europeo Dall'arretrata periferia siciliana che aveva prodotto la scuola verista di Verga, Capuana e De Roberto, Luigi Pirandello si rivela insieme a Italo Svevo e, per alcuni versi, Federigo Tozzi, il narratore che rinnoverà il romanzo in Italia. Come molti intellettuali della zona meridionale Pirandello lascia la Sicilia, l'autore studierà in Germania e si sposterà in un secondo tempo a Roma. Qui insegnerà al magistero ed avvierà anche la carriera di giornalista, narratore e uomo di teatro. Ricordiamo in questa sede che Pirandello diventerà capocomico del Teatro di Roma creando una compagnia stabile e poi mobile che porterà in giro per il mondo. Pirandello si rivela per questo suo percorso un intellettuale tipico della società moderna, che ricava dalle sua attività intellettuali il proprio vivere. Da sottolineare a proposito il ricevimento del premio Nobel nel 1934. Questa tipo di figura ricalca ormai non solo l'intellettuale italiano ma l'intellettuale europeo: pensiamo alle traiettorie biografiche di Joyce, insegnante d'inglese e collaboratore a diversi giornali e riviste, o Musil, bibliotecario presso il Politecnico di Vienna, funzionario ministeriale e giornalista e redattore. Guglielmi26 ci informa che il maggior punto di contatto di Pirandello con le avanguardie europee si ha una non appartenenza "dell'uomo a se stesso". Testo che approfondisce questa tematica è il volume di Mazzacurati Pirandello nel romanzo europeo . Mazzacurati infatti individua una linea che dal modello sterniano collega Pirandello e Proust. Se più specificatamente guardiamo l'opera narrativa non possiamo non riferirci al modello che Pirandello vede nel Tristram Shandy di Laurence Sterne per la disgregazione della dimensione temporale, spaziale e soprattutto, per l'unità del personaggio. Sterne infatti ignora ogni proporzione o gerarchia tra gli eventi. " Si libera in due righe dei vent'anni ed impiega interi capitoli per descrivere la posizione di un corpo: salta dalla nascita alla morte senza raccontare (in apparenza) la vita, indugia con provocatoria dissipazione analitica sul profilo di un bastione, mentre dintorno infuria un sanguinoso assedio." Tra il 1890 e il 1930 dunque si situa il periodo di sperimentalismo massimo per quanto riguarda la distribuzione temporale in tutta Europa, in effetti tra il 1930 e la prima metà degli anni cinquanta si assiste ad un seppur moderato ritorno ai canoni realistici.27 In questo momento particolare dunque si recupera la complessità della stratificazione dei diversi tempi nella società e negli individui molteplici. Come abbiamo detto i profili protagonisti di questo movimento modernista saranno Musil, Kafka, Joyce, Proust ma anche gli italiani Svevo e il nostro Pirandello. 26 Guglielmo, La prosa italiana del Novecento, Einaudi, Torino, 1986. 27 Mazzacurati G., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 271. 7. Bibliografia TESTI PIRANDELLO L., I vecchi e i giovani, a c. di A. Nozzoli, cronologia di S. Costa, Milano, Mondadori, 1992. PIRANDELLO L., I vecchi e i giovani, intr. di N. Borsellino, pref. a note di M. Onofri, Milano, Garzanti 1993. STUDI ALONGE R., Pirandello tra realismo e mistificazione, Napoli, Guida, 1972. BALDI G., I vecchi e i giovani: sguardo "da lontano" e "distrazione", in Pirandello e il romanzo. Scomposizione umoristica e "distrazione", Napoli, Liguori, 2006, pp. 99-121. DE BELLA, E ., Risorgimento e antirisorgimento a Girgenti, Agrigenti, Edizioni centro culturale Pirandello, 1988. DE MEIJER P., Una fonte di "I vecchi e i giovani", in "La Rassegna della letteratura italiana", LXVII (1963), 3, pp. 481-92. GANERI M., Pirandello romanziere, Soveria, Mannelli, Rubbettino, 2001. LAURETTA E ., Luigi Pirandello. Storia di un personaggio "fuori di chiave", Mursia, Milano, 1980. MASIELLO V ., L'età del disincanto. Morte delle ideologie e ontologia negativa dell'esistenza ne "i vecchi e i giovani", in AA.VV., Pirandello e la Politica, a c. di E. Lauretta, Milano, Mursia, 1992, pp. 67-87. MAZZACURATI G., Pirandello nel romanzo europeo, Bologna, Il Mulino, 1987. NOZZOLI G., Introduzione, in Pirandello, L., I vecchi e i giovani, a c. di di A. Nozzoli, cronologia di S. Costa, Milano, Mondadori, 1992, pp. VII-XXVIII. SALINARI C., La coscienza della crisi, in Miti e coscienza del decadentismo italiano D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro e Pirandello, Milano, Feltrinelli, 19893, pp. 249-84. SCRIVANO R., "I vecchi e i giovani" e la crisi delle ideologie, in La vocazione contesa: note su Pirandello e il teatro, Roma, Bulzoni, 1995, pp. 117-58. SIPALA P. M., Dal romanzo-documento al romanzo storico: De Roberto e Pirandello, in Scienza e storia nella letteratura verista, Bologna, Patron, 1976, pp. 161-206. SPINAZZOLA V., Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990. 8. Appendice Tabella 2: I sette romanzi di Pirandello cfr. GANERI (2001) Titolo definitivo / Informazioni L'esclusa Il turno Il fu Mattia Pascal Suo marito Variazione di titolo Originario: Marta Ajala - - Giustino Roncella nato Boggiòlo Inizio della scrittura 1893 1895 1903 1909 Prima pubblicazione a puntate su 1901 "La Tribuna" - 1904 aprile-giugno "Nuova Antologia" - Pubblicazione in volume / editore 1908 riduzione da tre a due parti 1902 / Giannotta 1904 esce come estratto della rivista 1911 / Quattrini Nuova redazione / editore 1927 (2a) 1915 / Treves con il sottotitolo Novelle con il testo breve Lontano 1920 / Quattrini 1929 / Bemporad 1910 1935 inizio Giustino Roncella nato Boggiolo Taglio medio breve medio medio Luoghi principali Agrigento, Palermo Agrigento Liguria, Montecarlo, Roma Roma Struttura e titoli Due parti (I di 14 capitoli; II di 15 capitoli). Numeri romani 26 capitoli con numeri romani 18 capitoli con titoli propri (cap. I e II sono premesse) 7 capitoli con titoli propri Titolo definitivo / Informazioni I vecchi e i giovani Quaderni di Serafino Gubbio operatore Uno, nessuno e centomila Variazione di titolo - Originario: Si gira Originario: Moscarda, uno, nessuno e centomila Inizio della scrittura 1906 1914-1915 1909 Prima pubblicazione a puntate su 1909 "Rassegna contemporanea" solo fino al primo § del IV cap. della 2a parte 1915 giugno-agosto "Nuova Antologia" 1915 (alcuni brani) "Sapientia"; 1925-26 dicembre-giugno "La Fiera letteraria" Pubblicazione in volume / editore 1913 / Treves dedica "Ai miei figli, / giovani oggi,/ vecchi domani". Titoli propri per i paragrafi 1916 / Treves 1926 / Bemporad Nuova redazione / editore 1931 / Mondadori taglio dei titoli 1925 / Bemporad 1932 / Mondadori - Taglio lungo medio medio Luoghi principali Sicilia (Agrigento), Roma Roma - Struttura e titoli Due parti a 8 capitoli con numeri romani 7 quaderni divisi in capitoli (4-6) con numeri romani 8 capitoli ciascuno suddiviso in paragrafi (4-12) con titoli propri 1 Cfr. Introduzione in A. MANZONI, Storia della colonna infame, a cura di C. Riccardi, Milano, Mondadori, 1984, p. XIII 2 Cfr. Introduzione in A. MANZONI, 1984, op. cit., p. XLVII 3 A. MANZONI, 1984, op. cit., p. 3 4 C. SEGRE, C. MARTIGNONI, L'età napoleonica e il romanticismo, Milano, Edizioni scolastiche B. Mondadori, 2001, p. 308 5 A. MANZONI, 1984, op. cit., p. 6 6 Introduzione, cit. pag. LVIII-LIX 8 Introduzione in P. VERRI, Osservazioni sulla Tortura, a cura di G. Barbarisi, Milano, Istituto di Propaganda libraria, 1993. 9 Introduzione in A. MANZONI, Storia della colonna infame, edizione critica e commento a cura di C. Riccardi, Milano, Centro Nazionale di Studi Manzoniani, 2002 Milano. 10 Ibid. 11 Introduzione in A. MANZONI, 2002, op. cit. 12 Praxis et Theoricae criminalis . 13 G. Claro, Sentetiarum recepturam. 14 Praxis et Theoricae criminalis. 15 De peste Mediolani quae fuit anno 1630 (1640). 16 Del Governo della peste e delle maniere per guardarsene (1721). 17 Dell' istoria civile del regno di Napoli (1723). 18 Nota in A. MANZONI, Storia della colonna infame, con una nota di L. Sciascia, Palermo, Sellerio, 1981, p.176. 19 La storia infinita in A. MANZONI, Storia della colonna infame, con un saggio introduttivo di M. Martinazzoli, Lecce, Periplo, 1997, p. 12. 20 Introduzione in Storia della colonna infame, a cura di M. Cucchi, Milano, Feltrinelli, 1992, p.VIII. 21 Ivi, p. X. 22 G. ROVANI, La mente di Alessandro Manzoni, Milano, Libri Scheiwiller, 1984, p.530. 23 Ivi, p.531. 24 A. MANZONI, 1992, op. cit. ,p. 3. 25 Ivi, pp. 5-6. 26 Introduzione in A. MANZONI, 2002, op. cit., p. XLVII-XLVIII. 27 Ivi, p. XLIX. 28 Ivi, p. L. 29 G. ROVANI, op. cit., p. 544. 30 A. MANZONI, 2002, op. cit., p. LXXII. 31 G. ROVANI, op. cit., pp. 544-545. 32 Ivi, p.545. 33 Nota in A. MANZONI, 1981, op. cit., p. 174. 34 Ivi, p. 175. 35 Ivi, p. 176. 36 Ivi, p. 177. 37 Ivi, p. 178. 38 Ivi, p.179. 39 Ivi, p. 186. 40 A. MORAVIA, Opere 1927-1947, a cura di G. Pampaloni, Milano, Bompiani, 1986, p. 1028. 41 Ivi, pp. 1026-1027. 42 Ivi, p. 1029. 43 Nota in A. MANZONI, 1981, op. cit.., p. 176. 44 G. Vigorelli in A. MANZONI, 2002, op. cit., p. XXVI. 45 Ibidem. 46 G. ROVANI, op. cit., pp. 563-564. 47 G. Rovani, Cento Anni, Garzanti, Milano, 1975, pp. 4-5. 48 G. Rovani, Cento anni, G.Daelli e C., Milano, 1859-1864. 49 G. Rovani, Cento anni. Romanzo ciclico di Giuseppe Rovani, Stabilimento Radaelli dei F.lli Rechidei, Milano, 1868-1869. 50 La Treves è una casa editrice fondata a Milano nel 1861 dai fratelli Emilio Treves (Trieste, 1834 - Milano, 1916), giornalista e editore, e Giuseppe Treves (Trieste, 1838 - Milano, 1904). 51 Letteratura, a cura di Giulia Farina, Garzanti Libri, Milano, 2006 52 G. Rovani, Cento Anni, Garzanti, Milano, 1975, p. 2. 53 G. Rovani, Lamberto Malatesta. Cap. XIV di Giuseppe Rovani, 2 voll., Ferrario, Milano, 1843. 54 G. Rovani, Valenzia Candiano. Racconto di Giuseppe Rovani autore del Lamberto Malatesta, Ferrario, Milano, 1844. 55 G. Rovani, Manfredo Palavicino o i Francesi e gli Sforzeschi. Storia italiana raccontata da Giuseppe Rovani, 4 voll., Borroni e Scotti, Milano, 1845-1846. 56 La vita di Giuseppe Rovani, a cura di Carlo Cattaneo in Rovani, Cento Anni, Garzanti, Milano, 1975, p. XVII. 57 Rovani, La Libia s'oro. Scene storico-politiche di Giuseppe Rovani, Stabilimento Radaelli, Milano, 1868 58 Rovani, La Libia s'oro. Scene storico-politiche di Giuseppe Rovani, Stabilimento Radaelli, Milano, 1868, p.5 59 Nardi, Scapigliatura. Da Giuseppe Rovani a Carlo Dossi, Mondadori, Milano, 1968, p.39. 60 Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane di Giuseppe Rovani, P. Carrara, Milano, 1889. Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane di Giuseppe Rovani, Messaggerie Pontremolesi, Pontremoli, 1988. 61 Rovani si riferisce ad una biografia di Giulio Cesare scritta da Napoleone. 62 Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare, F.lli Treves, Milano, 1921, pp.3-4 63 La citazione è tratta da Ippolito Nievo, Le Confessioni d'un italiano, a cura di S. Casini, Fondazione Pietro Bembo, 1999, p. 1531 64 L'edizione in questione è Le Confessioni d'un italiano pubblicata in 2 volumi nel 1999 da Guanda. Il romanzo è preceduto da un'introduzione e seguito da una dettagliata nota al testo che precede l'apparato critico. 65 Lettere, p. 487 66 Ippolito Nievo. Le Confessioni d'un italiano, a cura di S. Romagnoli, Marsilio, Venezia, 1998, p. XX-XXI 67 Lettere, p. 358 68 Ippolito Nievo. Le Confessioni d'un italiano, a cura di S. Romagnoli, cit., p. XXX 69 Ivi, p. XXVI 70 Lettera del 14 ottobre 1858, in Lettere, p.540 71 Ippolito Nievo. Le Confessioni d'un italiano, a cura di S. Romagnoli, cit., p. XXVIII 72 Ivi, p. XXV 73 P.V. Mengaldo, Appunti di lettura sulle "Confessioni" di Nievo, in "Rivista di letteratura italiana", 1984, p.468 74 La citazione è tratta da A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, Mucchi Editore, Modena, 1995, p. 10 75 La citazione si legge in A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, cit. p. 11 76 La citazione si legge in A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, cit. p. 9 77 La citazione è tratta da A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, cit. p.32 78 La citazione si legge in A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, cit. p. 34 79 La citazione si legge in A. Nozzoli, Immagini di Nievo nel Novecento, cit. p. 36 80 A. Nozzoli, Immagini d Nievo nel Novecento, cit. pp. 39-40 81 Si veda l'introduzione all'edizione per il centenario. 82 E' questo il parere della Gorra, nell'introduzione all'edizione Mondadori. 83 Questo evento sarà ricordato negli Amori garibaldini, nel 1859. 84 Si veda, per maggiori informazioni, ancora l'introduzione della Gorra all'edizione Mondadori. 85 Il testo dell'opera è digitalizzato da Google libri, dunque consultabile on line. 86 Anche questo testo è digitalizzato e reperibile in Google libri. 87 Parte del discorso è debitore di Francesco Olivari, Ippolito Nievo: lettere e confessioni, Genesi, Torino, 1993, p.288. 88 Anche tutte le fonti minori sono reperibili su Google libri; per il loro elenco sono debitore alla nota 16 del capitolo XI dell'edizione Mondadori a cura della Gorla. 89 A partire da Croce e poi ancora con Flora, Russo e Portinari, la critica ha quasi sempre considerato l'elemento storico secondario ed estrinseco nel romanzo di Nievo, apprezzandone solamente le parti più idilliche e poetiche. Una rivalutazione della presenza della storia nelle Confessioni si ha con Dionisotti, che parla invece di una profonda "intelligenza della storia". 90 Ricordiamo che nel 1858, dopo il tentativo di attentato da parte di un repubblicano italiano, Felice Orsini, a Napoleone III, Cavour ne approfitta per ricordare all'imperatore i pericoli di un movimento rivoluzionario in Italia e lo induce ad affrettare i tempi dell'alleanza militare franco-piemontese. Il 20 luglio Napoleone III e Cavour si incontrano a Plombières e l'imperatore acconsente a partecipare a fianco del Piemonte alla futura guerra contro l'Austria a condizione che il conflitto sembrasse causato da quest'ultima. Il 10 dicembre Francia e Piemonte stringono un formale trattato di alleanza. 91 Simone Casini, Introduzione alle Confessioni di un italiano, Parma, Fondazione Bembo, Ugo Guanda Editore, 1999, p. XIII. 92 Riprendiamo la citazione da Pier Vincenzo Mengaldo, Appunti di lettura sulle "Confessioni" di Nievo, in "Rivista di letteratura italiana", II, 1984, n. 3, p. 475. 93 Entra in gioco qui la solidarietà di Nievo verso il popolo contadino, che secondo l'autore avrebbero dovuto essere coinvolto attivamente e concretamente nei processi di liberazione nazionale. Queste saranno, come vedremo, anche le considerazioni di Carlino. 94 Ricordiamo a questi proposito la riunione notturna dei patrioti veneziani del maggio 1797 (cap. XI), mai avvenuta ma importante per sottolineare come la caduta della Repubblica di San Marco non sia da attribuire solamente al pragmatismo straniero, ma soprattutto alla volontà d'indipendenza e alla rivendicazione di italianità da parte dei patrioti veneziani. Nell'istituzione della Municipalità provvisoria, secondo il romanzo, le istanze francesi di libertà, giustizia e uguaglianza sono scelte consapevolmente e non subite passivamente. Un altro episodio 'falsato' è quello dell'assedio al monastero di Velletri da parte della legione comandata da Ettore Carafa durante la rivoluzione napoletana del 1799 (cap. XV). Questo episodio, benché inventato, richiama però la battaglia garibaldina di Velletri del 9 giugno 1849. Ricorda il passato recente anche l'anacronistica espressione di Carafa "guerra alla spicciolata" (cap. XV), che è da attribuire invece a Guglielmo Pepe e a Garibaldi per designare la guerra per bande nel '48. 95 Per l'incipit di questo capitolo, e anche per il finale del cap. XVI sulla Rivoluzione napoletana, Mengaldo parla di 'stile della storia' (negli Appunti sulle 'Confessioni', cit., p. 485n.), cioè uno stile segnato da decoro classico, oggettività nella descrizione e concisione. 96 Citiamo dalle Confessioni di un italiano a cura di Claudio Milanini, Milano, BUR, 2007. 97 Si trova qui un altro anacronismo storico: la Repubblica Cisalpina viene storicamente proclamata il 9 luglio, cioè prima della caduta di Campoformio. Nievo invece, per ragioni interne al romanzo, la posticipa al 21 novembre, in modo tale che i protagonisti possano assistervi da esuli. 98 Queste stesse idee di romanticismo insurrezionale verranno riprese in Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (1859). 99 È stato notato che Nievo, riproponendo la diatriba fra Foscolo e Vittorio Barzoni (cap. XI) dimostri la sua innata capacità di analisi storica. Ancor prima degli stessi storici, infatti, Nievo coglie il contrasto fra i democratici che divideva chi, come Foscolo, credeva ciecamente negli ideali francesi, e chi invece anteponeva all'entusiasmo quello scetticismo antesignano della successiva opposizione a Napoleone 'usurpatore'. 100 Simone Casini, Introduzione alle Confessioni di un italiano, cit., p. XXVI. 101 Simone Casini, Introduzione alle Confessioni di un italiano, cit., p. C. 102 L'elemento privato e individualistico non è tuttavia un segno distintivo solo del moderato Carlino. Il fervore rivoluzionario di Lucilio, infatti, può essere letto come una volontà di riscatto per non aver potuto sposare Clara. La sua battaglia sarà compiuta solo quando non esisteranno più differenze di ceto. 103 Simone Casini, Nievo e Mazzini. Le rivoluzioni del 1849 tra biografia e finzione, in Ippolito Nievo tra letteratura e storia. Atti della Giornata di Studi in memoria di Sergio Romagnoli. Firenze, 14 novembre 2002, a cura di Simone Casini, Enrico Ghidetti e Roberta Turchi, Roma, Bulzoni, 2004, p. 117. 104 Sicuramente però possiamo delineare le varie fasi del 'pensiero politico' di Nievo: una iniziale adesione alle teorie mazziniane e al Partito d'Azione (Mazzini però non dà particolare importanza alla riflessione sul ruolo dei contadini, come invece avviene in Nievo), una fase poi di adesione al programma di Cavour (anche se con riserve e critiche) e infine la scelta garibaldina, disposta alla collaborazione con il re. La stesura delle Confessioni, che peraltro nella nella narrazione di Carlino si fermano al 1849, si colloca quindi nel periodo 'cavouriano', in cui "l'obiettivo maggiore più lontano, la "libertà", passa in secondo piano rispetto a quello minore più vicino, l'"indipendenza". [...] Il rapporto gerarchico fra i due termini [...] si è insomma rovesciato, e se prima si voleva raggiungere l'indipendenza attraverso la libertà, adesso è l'indipendenza a presentarsi [...] come mezzo per attingere il fine maggiore della libertà" (Simone Casini, Nievo e Mazzini, cit., p. 121). 105 Pier Vincenzo Mengaldo, Prefazione a Ippolito Nievo fra letteratura e storia, cit., p. 15. 106 Giuseppe Mazzini, Ai giovani - Ricordi, in Id., Scritti editi e inediti, Edizione Nazionale, vol. XXXVIII (Scritti politici), Imola, Galeati, p. 259 (noi lo citiamo da Simone Casini, Nievo e Mazzini, cit., p. 125). 107 Simone Casini, Nievo e Mazzini, cit. p. 134. 108 Ippolito Nievo Opere scelte, a cura di S. Romagnoli, Ricciardi, Milano Napoli 1952, Introduzione pp. 36, 37 109 S. Contarini La pianta uomo: Nievo e la teoria delle passioni, in Atti del convegno di Udine (24,-25 maggio 2005), Esedra, 2006, pp. 51/70 110 I. Nievo, Le Confessioni di un italiano, a c. di S. Casini, Parma, Fondazione Pietro Bembo, Guanda editore, 1999, t. I, p. 102 111 Mengaldo, Appunti di lettura sulle Confessioni di Ippolito Nievo, in "Rivista di letteratura italiana", II (1994) n. 3, p. 509 112 MENGALDO 1999, p. 8 113 M. Gorra, Introduzione a Le Confessioni..., p. XLVI 114 A. Nozzoli, Introduzione a I. Neievo, Novelliere Campagnuolo, a c. di A. Nozzoli, Mursia, Milano 1994, p. 19 115 Le cosiddette novelle mantovane sono: Il Milione del bifolco e L'Avvocatino edd. 1856, La viola di San Bastiano ed. 1859, La viola di San Bastiano. Seguito della novella campagnuola "L'Avvocatino" ed. 1856, i frammenti de I fondatori di Treppo e de L'aratro e il telaio) 116 TESTA 2001 p. 305 117 TESTA 2001, p. 306 118 TESTA 1997, p. 75 119 TESTA 2001, p. 312 120 TESTA 2001, p. 314 121 TESTA 2001, p. 316 122 OLIVIERI 2001 123 MENGALDO 1999, p. 12 124 Per un catalogo dei fenomeni ascrivibili ai vari campi cfr. quanto già detto nel paragrafo Lingua e stile in Nievo prima de Le Confessioni 125 Pasolini, Introduzione a Poesia dialettale del Novecento, Guanda, Parma, 1952, p. CXII 126 MENGALDO 1987, p. 142 ricorda che Manzoni usa banda nel Fermo e Lucia, ma corregge sistematicamente con parte nella quarantana 127 MENGALDO 1999, pp. 22-23 27 1 SPINAZZOLA 1961, p. 159. 2 DE ROBERTO 1991, p. 16. 3 DE ROBERTO 1991, p. 30. 4 DE ROBERTO 1991, p. 32. 5 DE ROBERTO 1991, p. 103. 6 DE ROBERTO 1991, p. 213. 7 DE ROBERTO 1991, p. 261. 8 DE ROBERTO 1991, p. 350. 9 SPINAZZOLA 1990, p. 63. 10 Espressione di Spinazzola, cui dobbiamo anche questa divisione dei personaggi in tre gruppi: cfr SPINAZZOLA 1990, pp. 65 e ss. 11 SPINAZZOLA 1961, pp. 10-33. 12 DE ROBERTO, Arabeschi, Catania 1883, p. 62, cit in SPINAZZOLA 1961, p. 12. 13 DE ROBERTO, Documenti umani, Milano, Galli 1896, pp. XVIII-XIX, cit in SPINAZZOLA 1961, p. 13. 14 DE ROBERO 1991, pp. 502-503. 15 DAI PRA' 2003, p. 58. 16 F. De Roberto, I Viceré, Milano, Rizzoli, 1998, pag.29. 17 F. De Roberto, I Viceré, Milano, Rizzoli, 1998, pag. 301. 18 F. De Roberto, I Viceré, Milano, Rizzoli, 1998, pagg.460-461. 19 Ivi, pag.73. 20 Ivi, pag.654. 21 Cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990. 22 Lettera al Di Giorgi del 18-7- 1891, in A, Navarria, Federico De Roberto. La vita e l'opera, Giannotta, Catania, 1974, p. 267. 23 C.A. Madrignani, Illusione e realtà nell'opera di Federico De Roberto, De Donato, Bari, 1972. 24 Lettera al Di Giorgi del 15-9-1891, in A. Navarria, op. cit., p. 281. 25 L'intervista compare in U. Ojetti, Alla scoperta dei letterati, Dumolard, Milano, 1985. 26 Lettera al Di Giorgi del 7-12-1895, in A. Navarria, op. cit, p. 314. 27 C. A. Madrignani, Introduzione, in F. De Roberto, L'Imperio, Mondadori, Milano, 1981, p. IX. 28 A. Briganti, Il parlamento nel romanzo italiano del secondo Ottocento, Le Monnier, Firenze, 1972, p. 126. 29 V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, pag.4. 30 F. De Roberto, I Vicerè, Roma, Gruppo editoriale L'Espresso, 2004, Introduzione di Giorgio Patrizi, pag. XI. 31 V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, pag.6. 32 V. Spinanzzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori riuniti, 1990, pag.25.